Erbetti
Mattino di galaverna. Sarebbe luna grossa mattutina, ma è come se ‘stanotte l’avessero presa a sassate e fosse venuta giù in briciole. Il cielo è fosco, illume, spesso come mota, e qui giù ogni cosa fino all’orizzonte è sotto una glassata di graniglia zuccherina, luccicante dal di dentro del latteo lucore lunare. Mattino di galaverna che scricchiola sommessa sotto le scarpe testate sul K2, e sembra che sia l’universo intero a scricchiolare, un po’ troppo vecchio, ormai da rifare. Mattina che bisogna pur preparare qualcosa da mangiare per quelli che torneranno al tocco con la galaverna ormai nell’anima, mattina che tutto vorresti ma non arrivare fino all’orto, che sai cosa ti aspetta, la tragedia. Infatti s’è strinato persino il costonetto, si sono strinati gli ultimi tre carciofi, il sellero s’è smembrato; e sì che sono tutte creature che il freddo gli fa bene, li intenerisce, li fa dolci, ma qui siamo andati di là, qui siamo al regime siberiano, quest’orto è un gulag dismesso. Mattina sotto la frusta del gelicidio, che dovresti ammettere la sconfitta e fare la strada, magari a carponi, fino al besagnino. Sì, i besagnini; hanno detto alla tele che con l’ondata polare hanno fatto l’accordo di cartello e adesso il mercato è tutto quanto un franchising Cristian Dior. Ah, ma ci sarebbe il menù della galaverna, ci sarebbe eccome. Bisognerebbe solo non essere orfani, che mia madre fosse ancora da queste parti; allora, imbacuccata come la Befana, partirebbe a cercare i sette erbetti della miseria, lei era l’ultima a saperli trovare. Prendeva la strada e andava, non importa dove, li sapeva trovare in mezzo allo sfacelo dei lotti incolti, nelle faglie degli asfalti corrotti, negli interstizi dei marciapiedi, nei tornanti della collina, nei giardinetti. Gli erbi che resistevano a tutto, che il gelo li faceva anche più buoni, che buttavano in pieno inverno, nel cuore della miseria. Io non mi ricordo nemmeno tutti i nomi, erano nomi selvaggi, antichi; lei li puliva, li lessava e ce ne dava dei piatti così, con dentro due brancate di fagioli dall’occhietto, l’olio e il sale. E tutto si scaldava, l’universo intero voglio dire.
Il Secolo XIX, 15 gennaio 2017