Deserto digitale
In casa, nella parte più asciutta del “fondo”, l’utero della dea casa madre dove giace in sonno, e forse persino sogna, una mezza tonnellata di vita passata a non buttar via mai niente, è esposta una bella collezione di computers. Tutti Apple, dal primo Macintosh dell’85 al Mac Mini del 2010. Anche se è vero che vado ancora in brodo di giuggiole alla vista di una delle creature di Steve Jobs –creature, non creazioni- quella collezione non ha una stupida ragione voyeuristica, ma solide basi spirituali. Dentro ognuno di quei pc c’è un mio romanzo. Nove ne ho scritti, nove sono lì, ognuno nella sua custodia di memoria solida. Di alcuni di quei romanzi non ne conservo una sola copia cartacea; non perché non mi piacerebbe, ma perché i libri, quando sono a gratis e facilmente asportabili dalle loro scansie, vanno letteralmente a ruba. Pazienza. Giù nel fondo ci sono. E ci sono perché nessuna spiegazione di nessun luminare della tecnica e della letteratura è stata così esaustiva da togliermi dalla testa che dentro quella meravigliosa e indecifrabile macchina sarebbe rimasto imprigionato per sempre lo spirito della mia opera. Questo è, che la frequentazione della contemporaneità, e l’uso proficuo e assiduo dei suoi strumenti, non sono riusciti a sradicare le ancestrali radici pagane della cultura, o della superstizione se preferite, in cui sono nato e cresciuto nel cuore della contadinità. Poco male, secondo me. Certo, c’è stato un certo dispendio di mezzi, ma nemmeno tanto: la contemporaneità, perché sia veramente produttiva, pretende un solerte rinnovo dei suoi meccanismi, e poi, diciamolo, non si spende mai abbastanza per mettere i salvo se non l’anima almeno l’animo. Alla collezione manca un pezzo, un reperto dell’84. Quell’anno comprai un Commodore 64, il più popolare ed economico tra i personal pc dell’epoca; con quello scrissi i miei primi articoli per questo giornale, combattei indimenticabili battaglie contro gli omini verdi e composi bellissimi haiku. Quel Commodore lo diedi indietro per scontarmi un paio delle 36 cambiali con cui mi sarei pagato il primo Mac. Il resto no, ma gli haiku mi mancano. Era un programma, quello, fantastico; tu digitavi quattro parole che ti venivano in mente e ne uscivano fuori quattro versi, sempre inaspettati, sempre coerenti, sempre confacenti. Ne ho composti, ne ho fatto comporre alla macchina, centinaia di quegli haiku per regalare agli amici, alle amiche in particolare, che se ne rimanevano a bocca aperta, stupefatte. Ho imparato sulla scrittura creativa più con quella macchinetta che in tutto il mio corso di studi, in effetti quella è stata la mia unica scuola di scrittura. Finito il Commodore finiti gli haiku, peccato. Comunque, il fatto è che io non ho mai scritto una riga che è una riga che non fosse composta su una tastiera digitale avendo davanti un monitor, e dunque sono trent’anni ormai che io non faccio che degli e-book. Un animista digitale.
Adesso leggo sui giornali di questo evangelista del net, Vinton Cerf, che lancia l’allarme sul deserto digitale che ci stiamo preparando a causa della volubilità dei bit con cui esplicitiamo tutto quanto il nostro pensiero e corrediamo ogni nostra azione. Tra mille anni non ci sarà nessun prezioso manoscritto da rispolverare, nessuna stele da dissotterrare, nessun affresco da restaurare; tutto quello che lasciamo ai posteri è solo polvere di bit, trilioni di bit alla ventesima potenza sparsi lassù nella nuvola, aggregati in base a sistemi operativi che già tra vent’anni non saranno più leggibili. E che comunque già ora la maggior parte dei creatori non si ricorda neppure più di averli creati. Carta canta, parola dell’evangelista. Più che vero, sacrosanto. Lo dice uno che nel fondo si tiene le macchine intere con dentro i suoi vecchi bit. Così tra mille anni, i lombrichi che domineranno il pianeta le troveranno, se le rigireranno ben bene tra i peli, e se avranno abbastanza costanza potranno leggersi l’opera immortale del sottoscritto. Lo dice chi si stampa le sue fotografie su puro canvas con una macchina da duemila euro, se le archivia per bene e spera di potersele rivedere ancora leggibili sul letto di morte. Ma non ne è sicuro, perché si dà il caso che tra vent’anni saranno l’ombra dell’originale, visto che la cartaccia di oggidì, anche a pagarla oro, dura meno dei bit. Mentre quella di ieri, quella fotografica trattata con sali e acidi fotosensibili, dura poco di più se non conservata con criteri sacrali. E pensa che sì, questa è l’epoca della volubilità, ma è anche vero che gli antichi scrivevano su tavolette di argilla che cancellavano per riscriverci sopra, costruivano in massima parte in legno che è bruciato, dipingevano con terre che si sono dilavate in fretta, e quel poco che di loro rimane è per via di accidenti che non hanno previsto. E così sarà delle nostre cose, che ne rimarranno in qualche modo più di quante non serviranno già ai nostri figli. E da sempre e per chissà quanto ancora quello che conta davvero trova il modo di rimanere. In un modo che trova lui, per conto suo, un modo che ai suoi artefici sfugge.
Il Secolo XIX, 15 febbraio 2015