De André

Tutto quello che conta, l’unica cosa che conta davvero, è cosa rimane di quest’uomo nella mia vita, cosa rimarrà. Per quanto mi riguarda quest’uomo è la sua opera, solo quella. C’è stato un momento in cui ho sentito la sua voce nel mio telefono e nella voce un invito a fare assieme un qualcosa, ma ho fatto in modo che ogni possibile rapporto restasse così come penso che dovesse: distante e dispari. L’avessi assecondato avrei sciupato il suo invito ascoltandolo senza saper dire niente che rendesse giustizia a ciò che io so di lui, di ciò che ha fatto e io non sono capace e, così come sono messe le cose, non sarò mai capace di fare. La sua opera: ha scritto e cantato canzoni. E dentro le canzoni ha operato quello che io non ho saputo compiere nei miei romanzi: la sua rivoluzione libertaria.
È l’Anarchia ciò che mi resta di lui. Che non è una bandiera, non è un comizio, non una presunzione e nemmeno un programma politico; di certo non un graffito su un muro, ma nell’anima. L’Anarchia è una probabilità di redenzione. Che riguarda gli uomini e le cose degli uomini, che riconosce futuro nel mondo perché è capace di immaginarlo. Rivolta e riconoscenza, passione e smarrimento, solitudine ed empatia, violenza ed abbandono, dolcezza e cartavetra, scandalo e profezia.
Ho sentito l’ombra di tutto questo inciampare nella mia vita a quattordici anni, una domenica mattina d’autunno; stupida e solitaria mattina di un adolescente senza festa, senza oratorio e senza pallone nel cuore del conformismo miserabile dei primi anni sessanta. Mi ero messo per strada, così come fanno i ragazzi che vanno in cerca di niente, sino alla periferia, oltre i viali a ridosso delle mura diroccate della città. Negli anfratti di quelle mura attecchivano le acacie e fiorivano a quel tempo le capponiere, baracche di pietra e lamiera dove viveva la gente che poteva appendere al buco di ingresso un cartello di cartone con scritto a calce:la famiglia più povera d’Italia. Ce n’era almeno una dozzina di quei covili, e c’era anche un’osteria, un locale ricavato da un posto di guardia abbandonato dove davano vino nero da bere e acciughe salate da mangiare. Fuori dalla porta con la reclame del cognac Tre Stelle, sotto una robinia selvatica tenevano due o tre sedie e un jue box. C’erano facce da sbandati che se ne stavano ad ascoltare una canzone. La canzone diceva: voglio lasciare a Biancamaria che se ne frega della decenza ecc. ecc. Un’ombra dicevo, o un respiro. Ascoltavo quella canzone come se fosse la mia voce, perché la sua voce aveva rotto il silenzio che io covavo dentro. Mi sono fermato accanto a quel jue box e l’ho imparata a memoria, senza intenzione. Ora non saprei dire cosa sentivo di quella canzone e come potesse avermi scelto per forzare il mio silenzio. So che davanti a quell’osteria infame ho cambiato età, e quella nuova non è ancora conclusa. Da allora ho imparato a memoria, sempre senza visibile intenzione, tutte le canzoni che mi sono venute da quell’uomo, e ognuna è sempre stata la voce del mio silenzio. Anche se scrivo romanzi, rimango pur sempre un uomo che non ha abbastanza voce. Non per un canto redentore, non per l’Anarchia, non perché possa in coscienza pensare di bastare anche al mio personale bisogno di libero pensiero.
E voglio essere chiaro su come la penso in proposito. Penso che ci sia più spirito libertario e redentore nella ricetta della cima alla genovese, di cui non molti conoscono abbastanza la lingua per capire anche solo il senso di superficie, dell’inno al ferroviere anarchico che grandi folle si sentono in dovere di ascoltare a pugno chiuso.

Secolo XIX, 6.01.2009