Cristiani

Mi piacerebbe, signori lettori, farvi una domanda piuttosto personale e delicata. Permettetemelo.
È da un bel po’ che stiamo ascoltando la crema della nostra classe dirigente, i capi politici e quelli di eminenti associazioni, sindacati e corporazioni, il collegio al completo dei conduttori televisivi e degli opinion maker, i più raffinati stilisti e persino il giornalaio sotto casa e il Lupo Grigio Alì Akgià, proclamare all’unisono la fine di ogni ragionevole certezza civile. Le utopie sono frutto del pensiero criminale, l’etica politica è demagogia per i gonzi, lo stato laico un lascito di infiltrati del KGB, il popolo sovrano un tetro scampolo di folklore giacobino. L’unico valore certo su cui possiamo contare per regolare la nostra vita sociale, culturale e politica risiede nella nostra cristianità. È così? Non so. Ma facciamo che lo sia. Eccovi allora la mia domanda: possiamo dirci in sincerità di essere cristiani? Credenti nella parola e testimonianza dell’Iddio che si è fatto carne, carne macellata sulla croce, nell’estremo tentativo di liberarci dalla miseria di noi stessi. E professanti il corpo di valori morali che discende da quel crocefisso e dalle ineluttabili conseguenze che da quel mistero discendono?
Penso al Giubileo.
Immagino che non manchino le informazioni al riguardo. Come dunque è universalmente noto, ci sono due Giubilei. Quello della Bibbia e quello di Bonifazio VIII. La regola del Levitico impone ogni cinquanta un anno della Giustizia e dell’Affrancamento. Serve a purificare gli uomini dalla nefanda supposizione di essere padroni dell’universo. In quell’anno ogni cosa e ogni persona deve tornare a se stessa; tanto per dire, i debiti devono essere cancellati e gli schiavi liberati. La terra stessa deve rimanere incolta, perché sia chiaro che neppure lei appartiene a chichessia. Questo comanda Iddio nell’anno del Giubileo, e pretende in proposito buone azioni e non, semplicemente, buone intenzioni. Si può aderire o si può lasciar perdere, ma questo sta scritto.
Poi c’è il Giubileo di Bonifacio VIII. Che è stato una grossa operazione economica, e politica di un papa che condivideva con Josif Stalin l’opinione che la potenza della chiesa andava misurata in divisioni armate. E in oro. Dante, il noto poeta, a costo di rischiare la testa, e l’ha rischiata per davvero, lo condanna all’Inferno. Per il peccato di simonia. In termini moderni perché monetizzava la salvezza spirituale, lucrava sulla fede e commerciava in anime. A vantaggio di se stesso e del Sistema. Il Giubileo fu il grande boom. A milioni i peccatori compravano a caro prezzo paccottiglia reliquiale e indulgenze, messe e preghiere per salvare sé e i propri cari dall’inferno. Oggi sappiamo per voce dei più stimati teologi che l’inferno non esiste, e che qualora dovesse esistere sarebbe vuoto.
Appeso alla porta della banca dove mi servo c’è un cartello: Banca al servizio del Giubileo. Ho gioito. Finalmente in questo anno santo i debitori saranno affrancati dai loro debiti; tanta brava, povera gente che ritroverà la pace. Del resto il Cristo è stato molto esplicito: non si può servire assieme il denaro e Dio. Poi mi sono chiesto: pensa al Giubileo della Bibbia o a quello di Bonifacio il cristianissimo presidente della mia banca? Non so, rispondano i debitori.
In effetti quest’anno alcuni debiti sono stati rimessi. Quelli esteri del Mozambico e del Marocco. Dopo la grande inondazione il Mozambico non esiste praticamente più e non so chi avrebbe il coraggio di chiedergli dei soldi; ammesso che si trovi a chi chiederli, poi. Il Marocco invece esiste e sta occupando da più di vent’anni militarmente e illegalmente -con tanto di condanna dell’ONU- un paese, il Sahara Occidentale, riconosciuto da ottanta paesi. I trecento miliardi di debito contratto con il nostro cristiano paese non gli saranno mica serviti al Marocco per comprare le armi necessarie all’illecita occupazione? Per esempio le mine antiuomo che ha disseminato per tutto l’abusivo confine? Ed è nello spirito della Bibbia o in quello di Bonifacio che abbiamo compiuto questo gesto Giubilare?
C’è una ragazza che mi ha chiesto aiuto. È una ex tossicodipendente che ce l’ha fatta. Ha due figli in tenera età. Avrebbe bisogno di due vani per provare a vivere una vita decente con il suo stipendio new economy. Gli affitti sono alle stelle e non siamo riusciti a trovare niente in tutta la città. Domani tornerà a vivere con i suoi bambini nella comunità terapeutica. Immaginatevela come l’ha presa. Nell’anno dell’Affrancamento non si è trovato un cristiano disposto a rinunciare alla propria speculazione. Quale Giubileo celebrano gli immobiliari?
E ancora. Pensate davvero che sia inopportuno agli occhi di Cristo che gli omosessuali sfilino per le strade della città di Roma nell’anno del Giubileo? Quando e perché il Cristo ha trovato inopportuno che chichessia gli sfilasse sotto gli occhi? O non ha forse redarguito sempre aspramente chi gli faceva questioni di opportunità? Il re profeta Davide rese grazie a Dio, e da lui fu molto apprezzato, cantando e danzando assai poco opportunamente ignudo. E San Francesco, patrono di questo paese, fece altrettanto sfilando con i suoi confratelli al cospetto del suo vescovo. Né l’uno né l’altro piacquero a quelli che Cristo chiama sepolcri imbiancati.
Penso a questo e rivedo l’immagine del cardinale Sodano che in mondovisione estrae la busta numero 3 del grande quiz di Fatima con l’espressione di chi ha in pugno la risposta al mistero del secolo. Profezia di sventura, genere assai detestato dal figlio di Dio. E rivedo il professor Marcellini brandire il suo bisturi annunciando la diretta tivù del Grande Miracolo. È in questi spettacoli che vogliamo riconoscerci come cristiani? Il figlio di Dio non amava fare di sé spettacolo e i miracoli glieli strappavano dalle mani per solo amore. Beati quelli che credono senza aver bisogno di vedere, diceva scontento dopo aver salvato una vita e non predetto una disgrazia.
Forse che assieme a quello laico, anche il pensiero del Cristo ha bisogno di aggiornamento, di flessibilità, di acutezza interpretativa, onde renderlo adeguato ai tempi, alla concorrenza internazionale e alla nostra miseria.

Secolo XIX, 29.05.2000