Buon giorno Santità,
mi chiamo Maurizio Maggiani e pur avendo vissuto nella certezza della vastità della vita e nello stupore delle sue infinite occasioni, mai mi sarei immaginato di scrivere al pontefice della chiesa cattolica romana, al servo dei servi nel nome del Cristo. Ed eccomi invece qua, su questo foglio stampato preso da un’urgenza che supera le mie timidezze e la ragionevole evenienza che a lei questa mia non giunga mai. Le premetto in onestà che mi sarebbe assai più facile rivolgermi a lei come fedele della chiesa cattolica, ma così non è. Seppure nella semplicità di lettore conosco le Scritture, conosco la predicazione del Cristo, sono conscio della sua straordinaria, prorompente forza profetica, della sua luce sovvertitrice dell’antico ordine delle consuetudini, delle leggi e delle ipocrisie, la luce di una buona notizia per gli umani che non ha mai cessato di offrirsi, ma non ho mai avuto il dono, la grazia, di pazientare per tre giorni al suo sepolcro, aspettare con Maria di Magdala e constatare la resurrezione del figlio di Dio. Riconosco il figlio ma non so riconoscere il padre, rientro dunque nel canone dei non credenti, ma so come lei sappia guardare con generoso sentimento di fraternità agli esseri viventi e tra questi agli umani in qualunque canone siano iscritti, e dunque ecco che vengo alla ragione di questa mia. Di lavoro faccio il romanziere, so per certo di non essere un grande romanziere, ma so in coscienza di fare il mio lavoro in onestà e dignità. Le storie che mi piace raccontare, e che sento il dovere di farlo, sono le storie dei silenti, degli ultimi e degli umili, come canonizzano i critici letterari, storie che altrimenti non avrebbero voce, che si dissolverebbero nel nulla portando con sé nella smemoratezza le vite; è da lì che vengo, non so e non voglio dimenticarlo. Orbene, nei giorni scorsi la cronaca mi ha informato che i miei libri, al pari della grande parte dei libri prodotti in questo paese, sono stati stampati in un centro dove assieme a lavoratori italiani regolarmente contrattualizzati, opera una sedicente cooperativa che avrebbe sfruttato fino all’indicibile il lavoro di cittadini pakistani, violandoli fisicamente, moralmente, economicamente, privandoli di ogni dignità di umani e di lavoratori, facendone schiavi. E ho provato vergogna di me, di me che sto così attento a tenermi le mani pulite e non servirmi di prodotti in sospetto di sfruttamento schiavistico, eppure non ho mai riflettuto sull’evidenza che il mio lavoro di romanziere, così nobile, così intriso di privilegio, è parte di una catena del sistema produttivo, quella che pudicamente chiamiamo filiera, non dissimile da ogni altra, e dunque passibile delle stesse aberrazioni. E ho avuto vergogna di me, che, fedele come penso di essere al mandato dei senza voce, ho dimenticato di essere collega di ogni altro lavoratore, moralmente vincolato alla solidarietà dell’appartenenza ad un unico destino di venditori della propria opera, che sia frutto della fatica delle proprie mani o della mente. Mio padre operaio e mio nonno contadino avevano le mani grosse come badili, ma non per questo un pensare meno grande, perché il lavoro delle mani è pensiero né più né meno del mio faticare sulla tastiera. Finché la cronaca non me lo ha mostrato, della schiavitù dell’ultimo anello della catena editoriale non sapevo, ma il non sapere non è un diritto, è una condizione di minorità. Ora che so, come posso sottrarmi al semplice quesito: val la pena di scrivere storie che con l’ardore delle migliori intenzioni che vorremmo ricche di bellezza e saggezza, l’utile bellezza, se poi per offrirle al lettore abbiamo bisogno del lavoro di schiavi? Ho posto questa domanda in pubblico, rivolto ai miei colleghi prestatori d’opera d’ingegno e ai loro datori di lavoro, a chi si sente di vantare una superiorità morale del proprio ruolo rispetto ai produttori di circuiti elettrici o di calzature o conserve, le catene, le filiere, di cui sappiamo, e denunciamo e infine sopportiamo la natura aberrante di prodotti della schiavitù. Non ho ascoltato né letto alcuna risposta, come fosse una domanda oziosa, un di più senza buone risposte, come se l’industria editoriale fosse popolata da eccelse menti socratiche, e come accettiamo che non ci sarebbe stato il pensiero di Socrate senza il lavoro degli schiavi, così possiamo ben tollerare anche quello di Maurizio Maggiani. E allora mi rivolgo a lei Santità, perché con tutto il mio cercare non riesco a vedere nessuna altra autorità morale che oltre ad avere alta voce è disponibile ad ascoltare, a chiedersi prima di giudicare, in nome di una fraternità universale di cui altrimenti non sento che considerare con supponenza e noia. Tra le molte fatiche della sua pastorale è compreso anche lo scrivere, io sono tra i molti suoi lettori, e mi permetto di dirle che alcune delle sue “opere” le ho lette come grandi, affascinanti, sagge storie. Dunque, in qualche modo per una piccola parte della sua grande parte, siamo colleghi lavoratori della scrittura. So bene che il suo lavoro di “scrittore” prende strade assai distanti dalla catena, la filiera, dove va a compiersi il mio, ciononostante ora lei sa, e, in nome dell’indivisibile responsabilità che ci lega tutti quanti, mi permetto di farle carico della domanda a cui non ho avuto nessuna risposta: val la pena di produrre belle e sagge opere se per farlo abbiamo bisogno del lavoro degli schiavi? Nella mia minorità mi creda ammirato fratello in questo mondo, e non di questo mondo.