L’anno scorso come oggi scalavo maldestramente il muretto di un giardino di Bonassola allo scopo galeotto di rapinare una rama di mimose per la mia amata, leggevo i giornali, stava succedendo qualcosa di grosso ma la giornata era splendida, le mimose un trionfo, la focaccia di Bianchetto faceva i brividini sul palato, un filo di tramontana aveva steso il mare, blu cobalto, azzurro, giallo oro il colori di quel giorno, non avevo mascherine, non sulla faccia e nemmeno in tasca, la disgrazia era altrove. Domenica io e la mia sposa siamo tornati a Bonassola, per la focaccia, per il mare marezzato di tramontana, per la mimosa, c’era tutto, per la mimosa non è stato necessario neppure l’effrazione, ce n’era di regale sul ciglio di un orto in abbandono, arrembati a uno scoglio, tiepido, odoroso di salmastro e erbino novello, ci siamo tolti la mascherina per darci un bacio, con timidezza, la disgrazia non è lontana, è qui da qualche parte. Un anno. L’avevamo presa bene un anno fa, in fin dei conti era ormai primavera, viviamo nel privilegio della campagna, la clausura non era che un paesaggio silente dei rumori degli umani, c’era persino gioia nell’andare per i campi e constatare come l’universo degli esseri potesse dire la sua indisturbato, l’alzavola covava a gran voce, il capriolo scendeva dal folto per pascolare fin sulla carraia, gli albicocchi fiorivano come non s’era mai visto, come se sapessero qualcosa di buono che dovevamo riuscire a capire, era tutto un gran respirare, non un motore acceso fino all’orizzonte. La restrizione era una prova, un cimento che ci avrebbe potuto far bene, distanziarci non era poi un sacrificio così gravoso, poteva essere intrapreso come un esercizio di igiene mentale. Poi veniva la sera, la sera veniva la televisione e con la televisione le conte, le conte degli infetti, le conte delle ambulanze, le conte dei morti, e la disgrazia si faceva vicina, si poteva quasi sentire che avesse un odore, l’odore della spietata solitudine. E poi la conta dei telefoni, chi chiamare per primi, chi dopo, chi alla fine, quelli che non prendevano sonno. E la distanza si è fatta presto una sorda ansia, una costrizione dell’anima che era prigionia, prigionieri di guerra. Perché quella era la parola, guerra, e come tutte le guerre era pronosticata di breve durata, andrà tutto bene, già, ce la faremo. Intanto che la primavera si faceva di splendore è morto il nostro primo amico, poi il secondo, il gioco della cena era di cosa riusciamo a parlare stasera per dieci minuti filati senza pronunciare quella parola? Il gioco del mattino, uscire di casa e rientrare nella perfetta osservanza di regole e norme. E presto i giochi si son fatti troppo complicati per divertire. Intanto il domani si disfaceva sempre più diafano e distante e i progetti per il dopodomani si frantumavano un attimo dopo averli immaginati, come bicchieri di cristallo percossi da una voce troppo potente, la vece del comitato tecnico, la voce del governo, la voce dei pronto soccorso. A maggio raccoglievamo le ciliegie, ce n’erano a non finire e nessuno veniva a prendersele, tutto quello che riuscivamo a immaginare era, ce la faremo a andare al mare? Ma non la mia sposa, lei è riuscita a coltivare un progetto, a farsene una passione feconda nel mezzo della disgrazia, tornare con i suoi studenti a scuola, tornarci sani dall’infezione e salvi dalla deprimevole frustrazione della didattica a distanza; la nostra casa si è fatta il quartier generale di una rivolta, telefoni e computer si illuminavano dal primo mattino a notte fonda di un fervore di azione che riempiva anche la mia inanità, mi intimava a non arrendermi alla contingenza, il pericolo più grande era adattarsi alla privazione e consentire allo stato d’eccezione di farsi norma. La resilienza non è sempre una qualità, e questo è il tempo della resistenza, accettare la transitorietà della privazione ma resistere alla tentazione di privarsi indefinitamente. Di cosa? Dell’umano amore per il futuro, la più vera e assoluta libertà. Alla fine siamo andati al mare, e in autunno la mia sposa anche a scuola con i suoi studenti, almeno per un po’; e è arrivato l’inverno, la seconda ondata, la terza, la variante, le varianti, un vaccino, due vaccini, da qualche parte ci sono, se ne parla, si è visto farli. Abbiamo cambiato governo come se l’ultima risorsa fosse un rito sacrificale, e sacrificare un governo fosse grato agli dei. E adesso che già si stanno aprendo i fiori degli albicocchi, nella nostra casa siamo punto e a capo; forse arriveranno anche qui i vaccini, forse arriveranno in tempo, la consegna è aspettare. Ma non sarà come la passata primavera, non voglio andare per i deserti campi a bearmi dei silenzi cristallini e dei cieli purificati, no, non lo voglio. C’è una sola cosa che possa fare di me un eroico resistente, lavorare; non il solito lavoro, ma uno nuovo, ancora da imparare. Lavorare a un futuro che oggi non so nemmeno come immaginare, lavorare a un progetto del vivere che già domani, perché comunque sia domani c’è e viene, abbia in sé la forza di scalfire anche solo di un millimetro, un millimetro alla volta, la muraglia che l’infezione ha eretto tra me e ciò che di meglio sono, un vivente che lavora per la vita. Indefessamente, testardamente dedito alla vita che verrà, che se fosse solo il contrario della morte non varrebbe neanche la pena di perderci un secondo. Nessun governo e nessun vaccino potrà fare questo lavoro per me, questo duro lavoro per tutti noi.