Appennino

Vado all’Appennino come vado alla casa delle origini, alla mia casa matrice e silvestre. Non c’è Apuo o Ligure, o apuoligure , che volgendo il suo sguardo al mare non avverta, naturale, ovvio, il sentimento dell’Appennino alle proprie spalle, la costrizione e la protezione, il grembo seccato e sempre rifiorito dell’Apua Mater. Vado all’Appennino  perché è madre che vive oltre le disgrazie e gli abbandoni, perché non c’è un vallo, una costa, un passo o una roccia o sito selvatico che non siano abitati, transitati, segnati, lavorati, benedetti e maledetti è ancora una volta benedetti, lasciati e ripresi; e sempre e comunque viaggiati, che l’Appennino è una via, l’arteria direttrice di ininterrotto scambio di cose e persone, anime e destini. Destini; a ogni disgrazia, catastrofe e temperie di sciagura il destino dell’Appennino è dato segnato per sempre, e sempre è contradetto. L’impero di Roma lo volle svuotato dei suo popoli, e c’è chi è rimasto,  la fame, la fame irrimediabile, ha deportato i discendenti alle Americhe, e c’è chi è tornato, i terremoti, la madre sempre scossa da tragiche doglie, hanno dirotto i paesi, e ogni volta c’è stato chi ha riedificato. Contro ogni apparente ragione e logica, chi parte torna, chi perde riporta, ciò che muore rinasce, dovesse anche aspettare tre generazioni, e questo accade per amore e rispetto e dignità. Quanto si inventa l’Appennino per continuare a pensarsi vivo, a quanto lavoro senza ragionevole mercede si applica per la pura e semplice passione di resistere al destino che lo proclama in eterno morente. Quanto pane ancora si sforna, quante pietre angolari vengono ancora insediate, quanto primitivo formentone seminato, e castagni innestati, e antiche strade custodite. Quanta dispendiosa cura viene data per ciò che sembrerebbe insignificante solo a cambiar l’angolo da cui lo si guarda. No, l’Appennino non è madre di abbondanza e non di clemenza, ma i suoi figli non saprebbero averne un’altra. E tutto ciò non si vede se non da lì, se non da noi. Per il resto e gli altri, per l’opaco sguardo di una tivù, è solo montagne spaccate, maledetta incuria e fastidioso peso.

Il Secolo XIX, 2016