Degna sepoltura
Sappiamo che Neandertal seppelliva i suoi morti, sappiamo che l’homo sapiens ha edificato una ritualità della sepoltura e sappiamo che l’homo sapiens sapiens ne ha fatto una religione universale. Dare degna sepoltura, celebrare le esequie, accompagnare dunque, e testimoniare con una stele, una croce, una bandiera, un motto, e soprattutto con un nome, sempre un nome, è il modo in cui tutte le culture nel prendere atto della morte si negano all’annientamento della vita. Un cadavere insepolto, e al pari una fossa comune, sono un oltraggio alla universale grandezza della vita, e poi all’uomo senza più vita, a chi vorrebbe e dovrebbe piangerlo e ricordarlo. E un oltraggio agli dei naturalmente, alla legge degli dei, che impone agli uomini pietà, la pietà che là bestialità del potere eradica dal loro cuore. Antigone contro Creonte, la legge del cuore contro la legge del tiranno. Persino la guerra che si concede all’omicidio di massa del nemico decreta la tregua per le degne sepolture, almeno è stato così finché il cielo è stato abitato dagli dei. Ma ai tiranni non basta la morte dei loro nemici, vogliono l’annientamento delle loro esistenze, sanno che la morte non è una sconfitta totale e definitiva. Nella contemporaneità, Pinochet, e Videla hanno fatto della sparizione degli avversari una regola, il pianto sulle loro tombe, i loro nomi incisi, sarebbero stati una mezza sconfitta. Quando Tayyp Recep Erdogan promette un cimitero sconsacrato dei traditori si fa legittimo erede di Creonte e Videla, anch’egli ossessionato dalla persistenza delle esistenze dei giustiziati. Ma similmente tra noi, noi popolo così spesso autoritratto con il cuore in mano, si assume l’eredità di Creonte chi sanziona come sconsiderato e futile, il gesto di pietà umana e istituzionale, quel farsi carico così inusuale nel tempo degli impietosi della legge degli dei, che ha portato dal fondo del mare settecento cadaveri senza nome, settecento inumani immeritevoli di un’esistenza, alla luce di una identità e dunque di una vita, riconsegnando loro un’umanità del cui universale diritto sono stati privati.
Il Secolo XIX, 24 luglio 2016