Nostri e Loro

Vediamo di non essere ipocriti, i morti non sono tutti uguali, e nella morte non c’è giustizia e non c’è livella per pareggiare i conti dei vivi. Ma ci sono invece i miei morti e ci sono i tuoi morti, ci sono i nostri morti e i loro morti. È così, è così persino nei nostri cimiteri, visto che non sappiamo niente del vicino di tomba di chi andiamo a ricordare; a un palmo dal nostro è già uno dei loro, e come esempi di fiabesca bontà si narrano leggende di vecchie signore che sottraggono un fiore al defunto marito per lasciano su una tomba disadorna di uno sconosciuto.
I 140 morti di Parigi sono i nostri morti. Anche se non conoscevamo nessuno di loro, con un atto di familiare pietà, prima ancora che di civile pietà, li abbiamo accolti nel nostro interiore sacrario. Non è stato un gesto immediato, vediamo di non essere ipocriti nemmeno in questo; a parte pochi magnanimi spiriti, in generale non è stato un moto spontaneo dell’animo ma un atto della volontà. Frutto di un lavoro della mente non semplice e non diretto, per i più pronti durato ore, per i più lenti giorni, per qualcuno tra i più tardi ancora in via di elaborazione. E abbiamo avuto bisogno di aiuto, lo abbiamo chiesto, e l’aiuto ci è stato dato dai media in forma appropriatamente maieutica, quasi materna. Per appropriarci di quei morti avevamo innanzitutto bisogno di vedere, di vedere così bene da poter quasi toccare la prossimità fisica ed elettiva della tragicità dell’evento. E abbiamo potuto vedere, e sentire, come quegli uomini e quelle donne fossero stati ammazzati a casa nostra, sotto i nostri occhi, vittime di una guerra che non è stata dichiarata a loro, ma a noi. Guerra all’Europa, guerra all’Occidente, sono ancora segnali un po’ troppo astratti, dovevamo percepire la vicinanza di Parigi, il fatto che è una stanza della casa dove viviamo noi,  la porta dopo Roma e prima di Milano. È la prima cosa che ci hanno spiegato, illustrandocela con minuziosa partecipazione, e l’abbiamo capita subito bene. Ma soprattutto dovevamo vedere bene loro, i morti. Uno per uno, nome per nome. Una vita senza un volto e senza un nome non è una vita, ma solo qualcosa di indistinto e amaramente lontano; un Milite ignoto. Una delle più crude iniquità della guerra è quella di generare in massa dei militi ignoti. Vite perse, svanite nella tenebra di una fossa comune, cancellate nella loro unicità, sacro diritto di ogni vita; vite irriconoscibili, e dunque vite che in definitiva non sono mai state. Ma noi i morti di Parigi li abbiamo visti, uno per uno, volto per volto, e abbiamo conosciuto i loro nomi, il nome di ciascuno di loro. Abitano a casa nostra, li conosciamo tutti, sono morti nella nostra guerra, cos’altro per poterli reclamare per morti nostri? E li piangiamo perché sappiamo piangere per i nostri, e per loro reclamiamo giustizia, o vendetta. O tutte e due le cose. È così, è giusto così, è naturale così.
E ci sono i loro morti. Anche in questa contingenza di guerra che è evidentemente un’unica guerra, ci sono battaglie che si svolgono altrove, spesso molto distanti, e ci è sforzo al di sopra delle nostre energie prendere con noi quei morti, anche se sono morti ammazzati dallo stesso nemico. Del resto non sappiamo niente di loro. Forse che conosciamo i volti e i nomi delle 224 vittime dell’aereo esploso sul Sinai? O delle 64 vittime della bomba a Beirut, o le migliaia di vittime del terrorismo in Iraq, o non si sa quante vittime nigeriane, keniote, malinesi, siriane? Non è casa nostra da quelle parti. E poi come si possono mettere sui giornali, nel net, in televisione, tutte quelle facce, tutti quei nomi, che si fa anche fatica a leggerli? Anche volendo non ci sarebbe lo spazio, anche a essere generosi, sono così tanti che dopo un po’ verrebbe anche a noia, non è che si può vivere sempre lì attaccati ai morti. Quelli sono i loro morti, non i nostri. Morti di battaglie così lontane che anche quando uno dei nostri, metti un giornalista o uno di quelli che vanno a fare del bene dove si battaglia, brava gente meritevole di ogni riguardo, che magari è di qui, della mia stessa città, finisce ammazzato, non è del tutto un morto nostro; lo è un po’, abbastanza per un po’ di lutto e un po’ di rammarico, ma non da farcene una passione come ce ne facciamo per quelli di Parigi, per quelli che ci sono morti in casa.
Le cose stanno così, punto e basta, e è forse umano che stiano a questo modo. Ma se è così che stanno le cose, allora questa guerra, che di guerra si tratta no?, questa maledetta guerra che tanta paura ci mette addosso, questa guerra per cui siamo disposti persino all’indisponibile per farla finita, questa schifosa guerra asimmetrica, non la vinceremo, e l’immonda carneficina non avrà mai fine. Perché se non portiamo a mente tutti quanti i morti, allo stesso modo morti vittime dello stesso massacro, se non impareremo a riconoscere tutti quanti gli ammazzati uno per uno, allora combatteremo solo per casa nostra, combatteremo da accerchiati e assediati nell’età della globalità universale. Combatteremo la guerra di un borgo medievale assalito dalla orda dei barbari.  Visti i mezzi di cui disponiamo, potremo probabilmente resistere all’infinito. Prigionieri delle nostre stesse mura senza mai sfondare il fronte. Visto che se noi abbiamo solo i nostri, loro hanno solo i loro. Tanti borghi stretti nelle loro mura qua e là nello sterminato impero dei tartari.

Il Secolo XIX, 22 novembre 2015