Ieri mattina, aspettando nel tristo corridoio della scuola di mio nipote il mio turno al ricevimento dei professori, mi sono goduto lo spettacolo di un genitore seduto accanto a me che si è passato una bella mezz’oretta giocherellando con il suo smartphone. Cosa ci facesse di preciso non lo so, su quale social, face o game attingeva i suoi ardori lo ignoro, ma era tutto un trillo e un gemito, un bip qua e un bop là, un sibilare di invii e un raschiare di arrivi. E lui se la rideva, si incazzava, si stupiva e si inquietava al mio fianco, senza aver mai sbirciato un’occhiata in giro, senza aver mai dato per un solo attimo a vedere di essere cosciente di qualcos’altro che non fosse il suo trafficare sul cellulare. Esalava da quell’uomo un’aura di meravigliosa stupidità, l’indolente turpitudine di un bambino cresciuto nella jungla da una famiglia di babbuini, una soave assenza di censura morale, di selvaggia sincerità, e mi son chiesto come poteva essere cresciuto il suo amato figliolo, o la sua adorata figliola, quale poteva essere il suo rendimento nella terza classe di un liceo noto per un intenso programma didattico e la sua severa attinenza alle vecchie, buone maniere. Forse tra dieci minuti l’insegnante dirà a quell’uomo che suo figlio deve smetterla di rimbecillirsi con il telefonino e mettersi a studiare; magari invece se la caverà magnificamente, ho deciso, se solo ha imparato a cavarsela da solo, a essere genitore di se stesso e a non guardarsi attorno il tempo che se ne deve stare a casa a tavola con suo padre. Come forse magnificamente se la cava quello stupido uomo sul posto di lavoro o ovunque passi il suo tempo, sempre che riesca a tenere a bada il suo smartphone lo stretto necessario per mettere di tanto in tanto le mani su qualcos’altro, e i social che lo trastullano così tanto siano gli stessi dei suoi colleghi, o dei suoi amici, o di sua moglie. Facile che sia così, del resto quello è un genere merceologico che sforna prodotti orientati alle masse e a formarne di nuove, non agli individui, e ciò che a me appare come sfacciata stupidità è a giudizio delle masse utenti solo naturale, placida sincerità.
In fatto di placida sincerità, che a me e solo a me può apparire diversamente, mi colpisce come gli uomini di varia pubblica presenza siano sempre più portati a dire quello che pensano, un fatto culturale di straordinaria novità. Come quel signore nel corridoio non sa trattenersi, così non lo sanno, o non lo vogliono, fare loro; eredi di una storica attitudine alla reticenza, alla bugia a fin di bene, alla riservatezza intorno agli ultimi fini. Forse ha insperatamente vinto il principio di trasparenza universale, forse si ritengono esentati dal giudizio, forse pensano che tanto nessuno li sta più a sentire. Non so, di certo a questa rivoluzione della comunicazione non ci sono ancora abituato e ne rimango travolto di stupore. Prendiamo il XIX di ier l’altro. Spinosa questione delle case di lusso per i curiali vaticani, intervista a un cardinale, nientemeno che un principe della chiesa, intorno al tema in generale e alla sua bella abitazione in particolare. Due frasi virgolettate del principe: “Se mi chiedono di accogliere i rifugiati apro subito le porte della mia abitazione”, “Sono pronto a trasferirmi in un monolocale se domani il santo padre me lo chiedesse”. Dio mio, Dio mio, perché non ci ha pensato su prima di rispondere con tanta inopinata franchezza? Dunque quell’uomo della Chiesa è un anticristo, come osa dichiararlo pubblicamente, come pensa di farla franca con questo papa che si ritrova? Questo dichiara che se glielo ordinano si prende un monolocale, se riceve istruzioni apre le porte ai disgraziati. Ma questa è roba che gliel’ha già ordinata Cristo, ma non quando ha preso gli ordini, ma già quando ha confermato il suo battesimo. Se vuoi seguirmi, lascia tutto quello che hai, e dopo che ti sei spogliato di ogni cosa hai appena cominciato perché già due paia di scarpe sono troppe. E se non bastasse, ricorda che ogni volta che bussa alla tua porta un forestiero sono io che busso, e se respingi lui respingi me. Quell’uomo può anche aver perso la fede, può anche aver rinnegato l’evangelo, non sarebbe il primo, ma spiattellarlo così sui giornali, compiere un outing così plateale e sconcio se posso dirlo, sì sconcio, insomma, se non è questa una rivoluzione, se non è quel principe il condottiero dell’esercito dei sin verguenza, per citare l’Ignazio caro al Francesco da cui attende ordini, cui sarà data la vittoria sul vecchio sistema, le vecchie ipocrisie, e i vecchi vangeli, cos’altro resta se non aspettarci il ritorno di Eliogasbalo imperatore?
Il Secolo XIX, 8 novembre