Ignazio
Ignazio, Ignazio, quanto mi hai fatto penare Iddio solo lo sa. Ignazio, casto, lindo, retto Ignazio, sei lì infilzato al palo di San Sebastiano e vedo l’imago mortis della mia ultima senile speranza, stai ascendendo al cielo dei santi martiri e senza nemmeno degnarti di uno sguardo di pietà mi hai lasciato a morire in mezzo a questa fogna di maliziosi, immondi, furbastri topastri. Ahi Ignazio, Ignazio, t’avrei preso a morsi io se non ci avessero pensato loro.
E già che Ignazio Marino mi ha fatto fare cose che non avrei mai pensato di poter fare. Quell’uomo così candido e diritto, quel chirurgo così eticamente dedito, quel senatore così fattivo, mi ha indotto per la prima volta nella mia vita a formare un appello in favore di un candidato alla segreteria del Partito Democratico, era l’anno 2009, inducendomi alla doppia illusione che quel partito potesse avere un destino progressista e egli stesso guidarlo in tal direzione. Ritenni allora che quella poteva essere l’ultima e definitiva occasione di redenzione e l’eccezionale evenienza richiedeva da ogni sincero progressista, me compreso, il personale impegno e sacrificio, per questo, e a costo di non poche tormentate e insonni notti, mi decisi per il paso estremo. Sì, preferirei non ricordarlo, ho chiesto l’iscrizione a quel partito onde poter partecipare da avente pieno diritto e assunta la piena responsabilità alla battaglia elettorale del mio campione. Fu una faccenda dai risvolti mestamente comici. Mi recai alla sezione del mio quartiere, presidio democratico nel cuore del sestiere della Maddalena, e nel pieno del dibattito politico la trovai chiusa. Tentai più volte, finché non mi risolsi a usare le mie conoscenze per venire a sapere che si riceveva solo su appuntamento. Mi fu data questa tessera, feci un versamento da sostenitore, colsi nell’espressione guardinga del latore, era una signorina ora che ricordo, ombre di diffidenza e sospetto. Perché mai questo disgraziato ha tutta questa sprescia di infilarsi nel partito? Ma fu il tormento di un attimo, poi il suo sguardo si fece lontano e assente. Qui la mestizia, il comico si palesò nel fatto che non ricevetti mai avviso della convocazione del congresso di sezione. Ero in grande attesa di quell’atto sublime della vita democratica di partito, avrei fatto un gran bel discorso, avrei perorato la candidatura di Ignazio con argomenti di cuore e ragione, avrei dato il mio contributo, non avrei mai più potuto rinfacciarmi di non aver fatto nulla oltre a star sempre lì a criticare, criticare, criticare. Così non fu. Chiesi spiegazioni della mancata convocazione, mi fu risposto che una lettera era stata inviata. Una vera lettera postale, non una mail perché si era constatato che le mail del partito tendevano a naufragare nella tempesta degli spam. Avevo forse inavvertitamente smarrito la posta? Impossibile, era la missiva che più attendevo, mai vista una lettera con il simbolo del partito che intendevo redimere. Così venni a sapere che per ragioni di privatezza, le lettere del partito non avevano intestazione, e in effetti, io le lettere anonime le cestino senza aprirle. Un partito che si vergogna di mettere il suo simbolo su una lettera indirizzata a un suo iscritto ha una qualche possibilità di redenzione? E lì ha avuto termine il mio slancio sacrifizionale; del resto nessuno mi ha mai sollecitato il rinnovo dello slancio. Ignazio perse la sua battaglia congressuale, la perse in modo brutale e definitivo. Forse perché non ebbe il mio voto, ma sicuramente perché non era adatto per vincere quella battaglia. Lo seguii e lo capii con il senno del poi, il senno che non serve a niente. Le sue qualità che io tanto ammiravo erano anche le sue fragilità. La fermezza morale non sempre è fermezza del carattere, la convinzione non è detto che sia anche determinazione, la chiarezza delle idee non significa di per sé capacità di leadership. Ignazio non era un leader, un condottiero, un combattente, Ignazio era l’infantile attesa, la tardiva illusione che una brava e degna persona potessi farsi personalità forte quanto è necessario per prendere un toro per le corna, infilzare un drago, governare l’ingovernabile, fare di un partito che riceve su appuntamento l’organizzazione di massa dei progressisti. Quando vinse le primarie per il sindaco di Roma pensai che i romani gli avevano fatto un brutto scherzo, lo fotografarono con la fascia tricolore e quello che vidi era San Sebastiano. I romani per primi lo sanno che l’unico sindaco buono per la capitale sarebbe stato Pol Pot buonanima. Fermezza nei propositi, determinazione nel realizzarli, pugno di ferro nel condurli e un numero adeguato di sacrifici umani. Solo i lazzaroni, i capi manipolo e i manipolabili possono andare in giro a sbraitare che Ignazio, povero Ignazio, sia uomo che traffica con i rimborsi spese e menta sapendo di mentire. Ciò che l’ha infilzato al suo palo è stata la perseveranza nell’errore, un tantino diabolico, di voler fare quello che non sa, incoraggiato, un tantino diabolicamente, da gli illusi come il sottoscritto del 2009.
Il Secolo XIX, 11 ottobre 2015