Il Golfo è una vagina

Dov’è il Golfo, il golfo che già fu degli eremiti, degli ammiragli e dei poeti? Bisogna salire un po’, uscire di casa e trovarsi in vena di salire. Da qualunque casa, non importa, c’è modo di salire dappertutto. Da Marcantone verso il Felettino, da lì per via del Forno su fino a Isola e da lì ancora più su a Montalbano e due passi ancora fino ai resti degli ancestrali pii di crinale, bruciati, malati, sfiniti; trovatevi un posto comodo e lì restate. Da piazza Beverini o Garibaldi o Mentana o Brin verso le scalinate, una a scelta, dalle scalinate ai Colli, di lì per la via di Castellazzo fino a Sarbia e a Strà, e dalla pieve matrice di tutte le chiese delle plebi spezzine salite ancora fino a Viseggi; il posto giusto lo trovate subito, fermatevi e restate. Da Marola o Fezzano e Cadimare cercate la crosa che va al Piano, dal Piano che tanto piano non è salite e salite e salite fino alle cave di portoro, quelle morte e quelle vive; capirete subito, sceglietevi un bel pezzo di marmo dove potete sedere, fermatevi e restate. Ma da qualunque piazza o via voi partite, se avete davvero cuore di capire, salite fino all’Olmo e dall’olmo prendete la vecchia via di cava che ancor sale e sale fino a lassù, al culmine del monte Croce, lì troverete un vecchio fortilizio, casematte e sentine, sparsi qua e là cannoni Ansaldo poco buoni per gli aerei e poco buoni per le navi; anche in questo caso, pur stanchi come sarete, sarà facile trovare il posto giusto, proprio appoggiati alla culatta di un cannone, fermatevi e restate.
Restate a considerare il Golfo, lo vedrete tutto quanto dal corno di levante al corno di ponente, e nel Golfo vedrete ogni cosa che contiene, compresa la vostra città di La Spezia. Da quelle quote tutto vi apparirà più chiaro, esaustivo. E se sceglierete una giornata di tramontana tutto più splendente, e se scegliete una giornata di maestrale tutto più dolce, e se sarà scirocco magari restatevene a casa e provate un’altra volta. Ma se andate e restate vi apparirà ogni cosa vorrete vedere. Vedrete la corona delle pievi di collina dove i vostri avi tiravano avanti in orti di miseria, vedrete la città degli ingegneri militari, ordinata e diritta, vedrete il mare entrare in città dai bacini dell’Arsenale e farne una città lagunare, e vedrete la città repubblicana buttata lì come una cartata di acciughe, vedrete la ciminiera della centrate elettrica più alta persino delle colline, la vedrete eretta come un destino e capirete che il giorno in cui sarà abbattuta sarà stupido e infausto, perché quello è il vero monumento della città che si affranca dai militari che l’hanno creata, quella ciminiera dovrebbe restare in eterno testimone dell’arditezza dell’incoscienza di chi li ha succeduti. Vedrete la città ultima, quella della decadenza repubblicana, quella che ha imbrattato e lucrato fin dove ha voluto con la speculazione più triste e proterva. Ma vedrete a contenere tutto quanto il Golfo. E capirete perché sembrò il più bel seno mediterraneo e il più astuto dei ripari e il più sicuro degli agguati. In qualunque posto vi siete fermati vi parrà come un lago, forse un fiordo, e se non siete degli animali vi commuoverà la dolcezza con cui la collina si dà al mare e il mare si insinua nella collina. Riparo accogliente, ristrette morbidità, una conchiglia dalle valve socchiuse, una vagina. E vi meraviglierà come in quella dolcezza anche la peggio bruttura sembra dileguarsi, non sembrare nemmeno poi così brutta; la castità che permane oltre lo stupro. Soffermatevi almeno un momento a riflette su questo prima di scendere alle vostre vie e piazze per tornare a giacere all’isobara segnata da 1 a 60, che volendo sareste i legittimi sovrani del Golfo, i casti abitatori della sua castità, vivi e promettenti e desiderosi di cominciare ancora una volta dopo l’ultima sconfitta, di tornare a sognare come, lì proprio dove ora siete a giacere, si è sognato. Ma al livello del mare il Golfo non si vede più, e non si vede nient’altro. Neanche il mare, che ve ne siete fatti portare via anche l’ultimo spiraglio senza battere ciglio. Città di mare? Quale mare, il mare di chi? Una città di mare ama il suo mare e lo protegge e lo pretende, armandosi di tutte le armi che sa raccogliere. Sarà per questo, sarà che orbata dalla percezione della sua sovranità, alienato da se stessa la profondità del suo sguardo, la città del Golfo si è disamorata di sé, popolata da masticatori di Prozac e di inerti rancori, vociante dell’inesausto mantra degli adoratori dei pini marci di piazza Verdi e del sibilo quasi subsonico ma lacerante di un trafficare di affarucci e affaracci. E questo è un dolore che non mi da pace.

Il Secolo XIX, 30 agosto 2015