Svuotare il paese.
C’è qualcuno tra i lettori che non abbia un figlio, una nipote, il figlio o la nipote di un amico, di un fratello, di un cugino che negli ultimi anni e negli ultimi mesi non abbia preso e non se ne sia andato a cercar fortuna nel vasto mondo? C’è? Si faccia avanti perché io non ne conosco. Figuriamoci se mi rivolgessi ai lettori di un quotidiano del Mezzogiorno, metti Salento News. Zitta zitta c’è una generazione che sta tagliando la corda, spinta, costretta, consigliata a farlo. Il rapporto SVIMEZ dei giorni scorsi ci informa che il Mezzogiorno, appunto, è già spopolato, il resto d’Italia ci sta lavorando. Naturalmente sta partendo la generazione che ha più energie per farlo, giovane, in salute e acculturala, quella buona, in teoria, per dare novello slancio alla madre patria, per darle il tanto atteso ricominciamento. L’Italia Riparte, annuncia il nostro primo ministro. Se ci fate caso, quando compita questo slogan così efficace gli si strabuzzano gli occhi. È perché la vede ripartire davvero, ma non esattamente come da lui inteso, non in quella direzione. Abbiamo abbondanza di dati che ci dicono per dove è ripartita l’Italia. In un anno la Little Italy di Londra ha raddoppiato la sua consistenza, e ora siamo a 90.000 membri effettivi. Le Little Italy dell’Australia in dieci anni hanno fatto 4X. 3X quelle di Germania e Scandinavia. Bene anche la Francia e gli Stati Uniti. Tutte popolate da camerieri e infermieri che in un paio di anni hanno buone probabilità di diventare tecnici e ricercatori, ricercatori e borsisti che in un paio di anni si faranno professori e scienziati, cuochi e lavapiatti che in tre o quattro anni intendono diventare chef e titolari di bei locali. È certo, per la certezza che fanno i grandi numeri, che non a tutti andrà bene, ma intanto ci provano.
L’Aurelia, la figlia dei nostri vicini è tornata per la prima volta dopo due anni alla casa avita. È partita per l’Australia con il marito e la figlia neonata ed è tornata con loro. Ci racconta e veniamo a sapere che l’Australia non è l’Eldorado, che laggiù si fanno un mazzo così, che di friendly e smile se ne vedo poco e niente. Che, certo, a casa è tutta un’altra cosa, ma ha fretta di partire perché deve studiare sodo, il suo obiettivo è la cittadinanza australiana e ne ha ancora per tre anni di dure e progressive prove. La sto a sentire e mi viene in mente il titolo di un diario che ho trovato nella Banca della Memoria di Castelnuovo di Garfagnana: Lamerica non esiste, ve lo dico io che ci andieddi. L’autore è partito per New York nel 1894.
In quel decennio tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, partirono in nove milioni dall’Italia. Fu il modo, l’idea geniale, dei governi De Pretis, Crispi e Giolitti, e della real casa Savoia naturalmente, per superare la grande crisi economica che travagliava il Paese. Fu quella una crisi strutturale e mondiale, la crisi che segnò la fine del primo capitalismo pioniere e avventuriere e l’avvento del capitalismo novecentesco, quello testé defunto nell’ambito di un’altra grande crisi strutturale e mondiale, divampata nell’ultimo decennio del XX secolo e tuttora ricca di braci ancora ardenti. Ai tempi di Crispi l’idea fu che, piuttosto che passare il tempo a bombardare i cortei dei disoccupati e degli operai mal pagati, attività dispendiosa e alla fine inefficace, meglio era levarsi di torno la maggior parte dei morti di fame con viaggi si sola andata, e chi sarebbe rimasto avrebbe avuto più pane da spartirsi. Sarebbero rimasti i migliori, pensavano, e con loro l’Italia sarebbe ripartita. Non bastò neppure la guerra di Libia a smaltire tutti gli affamati ancora da saziare, e la Grande Ripresa, il decollo e il riscatto non furono che ubbie e prese per il culo.
Faccio questo ripassino di storia perché secondo me siamo allo stesso punto. A parte i discorsi, insipidi, banali, ruffiani discorsi di circostanza, non solo non esiste una politica di sostegno alla permanenza, ma neppure una di disincentivazione alla dipartita della generazione attiva. Il che corrisponde a una condotta attiva in favore dell’emigrazione. Chi può smammi, questo non è un posto dove stare, punto e basta. Non è una condotta di oggi. Ricordo come oggi, perché mi fece venire al pelle d’oca, un discorso del sublime D’Alema che in veste di primo ministro compose e recitò in pubblico, un pubblico plaudente di politici e imprenditori un elogio della mobilità interregionale e internazionale, se non addirittura intercontinentale. Dopo di lui gli altri, fino al nostro attuale corpo politico e imprenditoriale. Che avrà tanti difetti ma non quello di essere composto da idioti, o per lo meno non abbastanza idioti da non capire che i nuovi provvedimenti sul lavoro e la ripresa annunciata e riannunciata e annunciata ancora, questo tanto per cominciare, intaccheranno di un filino la smaniosa necessità di andarsene in un posto migliore. Partono e continueranno a partire, e chi rimarrà non avrà più pane da spartire, ma più miseria in cui sguazzare, visto che quella che se ne va è l’unica ricchezza foriera di progresso produttivo che abbiamo per le strade d’Italia. Lo dico con il cuore in mano, ma quando sento il nostro primo ministro giubilare che l’Italia riparte, mi prudono le mani. E sogno di essere in un oratorio, in un angolo fresco e ombroso di un oratorio, avere tredici anni e essere suo coetaneo, e mettermi lì a prenderlo a schiaffi, sciaf sciaf e poi ancora sciaf sciaf. Come si faceva ai tempi del boom economico, il prete benevolmente distratto, con i furbini che facevano i santini e tiravano agli stinchi.
Il Secolo XIX, 2 agosto