Biassei
Lo scorso mercoledì nella cronaca locale di questo giornale è apparsa la notizia di un fatterello tra i molti e quotidiani che ci dicono quanto ormai la gente non ne puole più di tutta questa storia di immigrati, profughi, richiedenti asilo e compagnia cantante. Un bel gruppo di residenti del paesello di Biassa alla Spezia ha manifestato occupando la pubblica via la sua opposizione all’arrivo di quattro coppie di profughi che avrebbero trovato alloggio nella locale palazzina della Croce Rossa. “Siamo pronti a respingerli con ogni mezzo, non li vogliamo.” Questo il programma della manifestazione, che non sarebbe di alcun interesse, dati i tempi, se non per il fatto che il borgo di Biassa è una realtà un po’ speciale. Biassa è un antico insediamento posto in una posizione non proprio felice sulla collina spezzina che separa il golfo dal mare aperto; mal soleggiato, esposto alle correnti del phon che salgono dal mare, scivolano giù dal crinale e lo abbuiano di dense nebbie. Trova le sue origini nell’insicurezza e nella paura degli antichi vignaioli che con disumana fatica piantarono le loro vigne nella falesia marina con il sistema del terrazzamento; esposti alla fragilità congenita della falesia e a ogni saccheggio saracino e banditesco, si ridussero a costruire le loro case dall’altra parte del crinale marittimo, in un luogo lugubramente ma efficacemente interiore, riparato e rassicurante. Una delle più belle e ardite strade mulattiere della Liguria è quella che collega il paese di Biassa ai suoi vigneti marini dall’altra parte del crinale, il percorso quotidiano del loro lavoro. L’insicurezza e la paura genera legami molto forti e tenaci vincoli identitari, così i biassei, che infatti si riconosco in due, tre cognomi in tutto, se ne sono ristati per secoli per conto loro, isolati dal resto delle comunità del Golfo. A Spezia i biassei non godono tradizionalmente di limpida fama e sincera simpatia, e nel folclore cittadino si contano innumerevoli fole sulla loro grevità, sull’intemperanza e l’indole violenta. I biassei contraccambiano volentieri l’antipatia e della loro estraneità hanno pur fatto nel tempo motivo di orgoglio. La modernità e ancor di più la contemporaneità ha cambiato molte cose anche a Biassa e tra i biassei. Molti tra loro lasciarono le vigne per occuparsi come sterratori e manovali nella costruzione dell’Arsenale Militare. Qui i biassei incontrarono per la prima volta lo Stato e le enormi potenzialità che dallo sSato potevano derivare per l’emancipazione dall’ancestrale miseria e per la prosperità della loro comunità. Così, con la Repubblica e il suffragio universale, genialmente intuirono che la loro coesione identitaria avrebbe potuto diventare un formidabile strumento di progresso. I 600/700 voti che esprime la piccola comunità possono sembrare poca cosa, ma in realtà, se univocamente espresso, si tratta di un formidabile “pacchetto” di preferenze, proprio quel pizzico in più o in meno che serve a pregiudicare o acconsentire persino all’elezione di un deputato, di un sindaco, di un presidente di Provincia. A dimostrazione della fallacità della vox populi, che voleva i biassei poco inclini alla vivacità del pensiero intellettuale, lungo i decenni repubblicani essi usarono con grande creatività questo loro “pacchetto”. Gli invidiosi, e mal organizzati, elettori urbani della sinistra hanno ben presto preso a lamentarsi di una mafia biassea, come gli imbelli moscoviti parlavano di mafia georgiana al tempo dell’Unione Sovietica. In effetti, bisogna dirlo, finché lo Stato e le amministrazioni locali hanno avuto da dare, i biassei hanno preso, e hanno preso a quattro palmenti. In quella comunità la concentrazione di pubblici dipendenti e di doppi o tripli o quadrupli pensionati, ha raggiunto nei tempi floridi livelli che solo la Nusco di De Mita o la Ceppaloni di Mastella, tanto per citare due comunità di simile potenza identitaria, potevano vantare di pareggiare. Nel contempo, la sgargiante fantasia nell’illecito e nell’abuso di edilizia e territorio, hanno sempre trovato generosi accomodamenti, condoni, tacitamenti. Ricordo che negli anni ’80 si fecero una strada per conto loro, una strada assai utile per poter finalmente raggiungere con moderni mezzi automotori e non più a piedi le loro vigne marine e le cantine divenute affascinanti residenze estive, se la fecero senza star lì a sfiancarsi nelle solite lungaggini burocratiche, se la fecero utilizzando mezzi meccanici di pubblica proprietà, e andarono assolti e condonati. Per la miseria, c’è o non c’è da invidiarli? E tra chi li invidia è pur legittimo il dubbio che i biassei non saranno mai nella condizione materiale e spirituale di pareggiare, non si dice il capitale, ma anche solo gli interessi di ciò che la cosa pubblica ha elargito loro in uno slancio pluridecennale di partecipazione solidale ai loro bisogni. È un po’ di anni ormai che i tempi sono grami, lo sono per tutti e anche, disgraziatamente, per i biassei. Pubblici impieghi, pensioni, condoni, addio; gli amministratori, anche volendo, non hanno più niente da dare, gli eredi del bengodi sono frustrati e confusi e l’antica miseria è un ricordo che non si è dissipato. Per intanto che nessuno gli vada a rompere le palle con rifugiati e altra miseria umana, che già hanno le loro preoccupazioni a manifestare al mondo quanto loro abbiano bisogno della passata solidarietà pubblica. Nella confusione hanno anche travisato il significato di Croce Rossa; pensavano che fosse stata fondata un secolo e mezzo fa per garantire a Biassa uno spazio per le attività di paese, non riescono a credere che sia istituzionalmente volta a proteggere le vittime delle guerre, come i rifugiati, appunto. Per questo, indignati e feriti, si propongono di respingere con ogni mezzo gli usurpatori di un pezzo del loro residuo bengodi. Ora non so più, ma a Spezia, al tempo che ero un ragazzino, quando un biasseo diceva “con ogni mezzo” noi urbani capivamo innanzitutto il coltello.
Il Secolo XIX, 12 luglio 2015