Etica del lavoro e della dignità

Giovedì scorso si è saputo che, tanto per non smentirsi, i ragazzotti, età media 30 anni, che avevano fatto domanda per un impiego all’EXPO, vetrina del Paese nel mondo e riscatto della Patria, venuto a sapere che non si davano stipendi d’oro e che alla fine bisognava lavorare, hanno dato forfait all’80% dei richiedenti. Venerdì su questo giornale Marco Menduni ci ha illustrato che magari non è proprio così. E ti credo che non è così. Ognuno di noi conosce nome e cognome e curriculum di un bel po’ di giovani, persino attempati, che si spaccano le mani, e non solo il cervello, per 800 euro al mese, o che se le spaccherebbero se solo glielo facessero fare. Fatta salva naturalmente la quota di lavativi, che per altro a mia memoria mi sembra invariata dal 1960, e ci scommetto che se solo potessi portarne ricordo è la stessa del 1860. Andate a rileggervi Menduni per capire bene a cosa dicono di no quelli che rifiutano il posto all’EXPO e chi sono. Aggiungo che per i compensi più alti, 1300/1500 euro sono richieste esperienze e competenze che i giovani non possono avere, organici riservati a quarantenni pluridecorati, che un posto così ce l’hanno già, e magari anche migliore. E chi invece dice di sì all’EXPO, e quegli organici sono più completi delle opere dove collocarli, accetta di lavorare a condizioni e salario che i loro padri che gli si sono fatti sotto a fare la predica col cacchio che avrebbero accettato. A tal proposito, a proposito di padri, voglio raccontare una piccola storia che mi riguarda circa i lavori precari e stagionali. Nel ’71 avevo 20 anni e un bel incarico di supplente annuale nella scuola elementare -per inciso vorrei proprio sapere quanti ventenni ci sono oggi negli organici magistrali della scuola- che mi dava un buon stipendio ma me ne lasciava senza per tutte le vacanze estive. Così feci domanda per il precarissimo e stagionalissimo posto di rilevatore del censimento di quell’anno, censimento che si sarebbe svolto con la bella stagione. Fui assunto assieme ad un altro centinaio di giovani, e il giorno dopo l’assunzione entrammo in sciopero. Tutti quanti. Un’unica richiesta: perequazione delle posizioni sfavorite. Perché è un conto fare il censimento tra via Fieschi e via Brigate e un altro farlo da Begato a Granarolo, ed era profondamente ingiusto pagare tutti allo stesso modo. In effetti uno sciopero di solidarietà di una maggioranza a sostegno di una minoranza. Oggi l’espressione stessa “sciopero di solidarietà” risulterebbe incomprensibile ed evocherebbe l’intervento dei servizi di sicurezza e di personale psichiatrico, allora erano altri tempi e lo sciopero ebbe successo. Essendo tra i promotori dello sciopero, fui punito e trasferito dal centro città a censire le più remote frazioni collinari. Fu in realtà un premio, perché passai un mese di gite in motorino, di panini e birrette consumati nelle osterie, di incontri singolari e istruttivi tra gli antichi abitatori della collina, non di rado vecchi contadini analfabeti a cui compilavo io stesso il questionario, aggiungendo alle loro scarne risposte qualche bel libero tocco di colore.
Racconto questo per dire che ho vissuto la mia gioventù in un tempo del XX secolo in cui l’esperienza del lavoro –lavoro che, almeno alla mia età, era comunque sempre segnato dalla temporaneità e dalla precarietà- era conformata a due principi di cui oggi non c’è più traccia. Un principio ce lo mettevo io, la mia educazione, un altro ce lo metteva il datore di lavoro, lo stato dei rapporti sociali con cui doveva fare i conti, fosse datore pubblico e fosse privato. Da parte mia ci mettevo l’etica del lavoro. Il fatto che fosse naturale, ovvio, lavorare, occuparsi in un’attività che producesse reddito ed esperienza. Se hai l’estate senza stipendio, allora c’è solo da procurarsene uno. Mi era stato insegnato così, da mio padre, dalla maestra Fabbri, dalla classe sociale a cui appartenevo. Il lavoro rende liberi, per l’appunto. Liberi davvero, visto che con il mio primo stipendio mi sono preso una stanza in affitto e ho cominciato a vivere da giovane uomo libero dalle angustie della famiglia e dalle sue naturali oppressioni. Il lavoro nobilita davvero, visto che a diciott’anni avevo già smesso di chiedere; ero un signore, capace di provvedere alle proprie necessità, padrone del mio destino. Questo semplice principio mi era stato insegnato con tale efficacia che manco mi mettevo a pensarci su. E la dignità del lavoro. Non si lavora a qualsiasi condizione, solo gli schiavi sono costretti a farlo. E se il padrone, foss’anche il Ministero, mi impone condizioni inique, io non le accetterò e lotterò perché ci sia giustizia nel riconoscimento della dignità di ciò che sono chiamato a fare. E il padrone sa che io so, sa che la mia dignità è un fatto della mia coscienza di lavoratore, ha imparato a prenderne atto, e nel caso che in nome dei suoi interessi particolari o della sua ottusità si opporrà, io gli opporrò la mia volontà, e allora vedremo chi l’avrà vinta. Questo non me lo ha insegnato la maestra Fabbri, ma mio padre e tutto quello che accadeva intorno a me nel mondo del lavoro degli anni ’60 del secolo scorso.
Cosa hanno tramandato di questi due principi ai loro figli, i giovani censori del ’71, i figli di allora ora fatti padri? Cosa di questi due principi si è conservato e accudito nella società che loro hanno definito e stanno dirigendo? Niente. Quello che gli hanno insegnato a prediligere è tutt’altro. La dipendenza, che li rende padroni dei propri figli e del loro destino in eterno, e la resa a un’occupazione senza condizioni, all’indegnità di un lavoro da servi. Quello che gli hanno insegnato a sognare è la libertà per mezzo del Grande Fratello e la nobiltà lungo la via di X Factor. Ragion per cui questa generazione di giovani aspiranti lavoratori è incredibilmente migliore di quanto non sia stata cresciuta ad essere.

Il Secolo XIX, 26 aprile 2015