Almeno l’otto marzo!

I maschi dovrebbero starsene zitti almeno l’8 Marzo. Mi è stato detto 44 anni or sono, l’8 marzo 1971, e da allora mi sono attenuto, con la disciplina di chi aderisce convinto a un sacrosanto principio. Quella volta del ’71 l’invito, o per meglio dire la pressante richiesta, al silenzio mi è stato rivolto dalla mia ragazza e dalle sue amiche in coro riunite in assemblea nella camera da letto, l’unica stanza con un po’ di privatezza nel bilocale dove due giovani rivoluzionari, io il maschio e Rosa la femmina, stavano intraprendendo un laborioso e entusiasmante esperimento di convivenza fondata sui principi libertari che andavano professando in corteo per le vie e le piazze d’Italia. In quella camera da letto il nostro privato rapporto era oggetto di pubblico dibattito, come la sera prima il pubblico dibattere aveva impregnato delle sue urgenze la nostra privata urgenza di amoreggiare. Era tutto molto bello e, se posso dirlo, deliziosamente faticoso. Nel frangente di quell’8 Marzo ero entrato nella camera a curiosare, visto che sentivo chiaramente pronunciare il mio nome più e più volte da voci diverse, con la maldestra scusa di proclamare il menù della cena. Ci sarebbe stata una cena offerta dal compagno della Rosa, a cui il compagno della Rosa non avrebbe, naturalmente, fatto parte. Il compagno della Rosa, di cui tanto si stava dibattendo intorno alle sue intime contraddizioni e manchevolezze, proponeva polenta “acunza”, piatto tipico delle sue origini, polenta condita con cavolo nero, fagioli e lardo. Quella ricetta, trascritta con devota applicazione dall’antico dialetto della matriarca, era l’unica dote che avevo portato con me lasciando a diciott’anni la casa materna per inoltrarmi nel vasto e sconosciuto mondo. Sapevo fare solo quello con le mie mani, la polenta acunza, e se oggi sono un bravo cuoco, e sono conscio dell’importanza del preparare il cobo, della dedizione all’offerta di cibo, lo devo a uno dei molti debiti di riconoscenza che ho contratto con  la matriarca e con il movimento femminista. Intanto perché se aspettavo che la Rosa, e le amate che le sarebbero succedute, mi preparasse la cena stavo fresco; e soprattutto, il fatto che sapessi apparecchiare una cena, una buona cena nonnesca o anche solo materna, come non se ne vedeva più dal tempo dell’infanzia ormai perduta e delle antiche festività ormai abiurate, è stata lungo tutta la mia non facile carriera sentimentale una potente attenuante, un buon motivo per soprassedere ai miei non pochi difetti di compagni e convivente, e ora, infine, consorte. Ma intanto, laggiù nel ’71, era ancora tutto da scoprire, vedere, capire. Credo di aver scoperto e capito qualcosa col tempo, visto che posso dire  di essere stato cresciuto, letteralmente, dal movimento femminista. Come tanti altri della mia generazione. Nel bene e nel male? Il bene riesco a vederlo, il male ancora mi sfugge. Se penso con gli occhi di oggi alle ragazze là, riunite nella camera da letto, quello che posso dire è che hanno lavorato per la giustizia e la verità nelle relazioni tra i generi, ma non per la loro felicità. Eppure era la felicità che andavano cercando, una felice, febbrile libertà. Laggiù nel ’71, quando tutte loro si rifiutavano a uno stato delle cose, delle loro cose, che oggi attribuiamo volentieri ad altre realtà, distanti e selvagge. Venivano da famiglie dove non solo i padri, ma anche i fratelli avevano diritto assoluto su di loro, su ciò che dovevano fare, su chi dovevano vedere e come, su come si dovevano vestire, su come dovevano essere. “Dé, te gira al largo di mia sorella”, chissà se c’è ancora qualcuno che se lo ricorda. Io sono mia è stata la traslazione coerente, e altrettanto cocente, di noli me tangere, io sono altrove, io non sono dove tu vuoi che sia. Che almeno l’8 Marzo i maschi se ne stessero zitti; avevano ragione. L’8 Marzo era la loro festa non perché avessero ricevuto il permesso di andarsene in pizzeria, ma perché quel giorno lo avevano eletto a grande rappresentazione teatrale della loro lotta, di una lotta indicibilmente dura, anche contro se stesse. Mandavano i loro uomini il giorno prima a rubare le mimose negli orti, io anche i  quel ’71 laggiù avevo trovato il modo di cadere da una mimosa e di farmi male. Avrei trovato sempre il modo di cadere dalle mimose, non mi sono mai messo in testa che il legno della gaggia è troppo tenero per il peso di un uomo.
Cosa resta di quel ’71? Non lo so, mi sembra niente. A parte le conquiste, naturalmente. Le conquiste senza lo spirito con cui sono state fatte. Le conquiste come se fossero venute così, per decreto ministeriale, o ci fossero sempre state e quindi non fossero in realtà delle conquiste. No, non è vero, resta la gaggia, resta la mimosa. Che quest’anno, fatto raro, è fiorita proprio quando doveva, in questi giorni. E è questa vampa di giallo, questa pozza di profumo, sparsa per gli orti che ora sono per lo più lasciati all’abbandono. Ne ho staccato un rametto da un albero con i rami abbastanza bassi per non doverci salire sopra, e me lo sono messo qui, sulla scrivania, perché mi ricordi con il suo profumo quello della polenta acunza, che non cucino da anni, da decenni ormai. Chi la digerisce più?

Il Secolo XIX, 8 marzo 2015