Voglia di guerra
C’è una gran voglia di guerra in giro per il Paese. Si sente, si palpa, si vede, si legge, si sniffa. Non parlo delle voglie del Ministro della Guerra, che, dato il suo ruolo istituzionale, che altro avrebbe voglia di fare se non la guerra? E faccio qui presente che il vecchio Ministero della Difesa ha cambiato destinazione d’uso da ormai quindici anni, da quando il parlamento della Repubblica ha decretato l’insufficienza di interpretazione dell’articolo 11 della Costituzione, mal compreso da un’opinione pubblica vittima di un pacifismo tanto ideologico quanto egotistico, e ha dato l’assenso a una guerra d’attacco contro la Serbia, guerra a fin di bene, guerra vinta, per inciso. Non parlo neppure qui delle straordinarie e coraggiose prese di posizione di questi giorni di autorevolissimi intellettuali opinionisti, le cui voglie altro non sono che il carico, pesante, che si son presi sulle spalle della funzione civile di coscienza progressiva della Nazione. Io parlo del popolo, del popolo! È il popolo che ha voglia di guerra. Interrogato in proposito ha detto che sì, ne ha voglia, anche se si sa che con le guerre muore un sacco di gente, anche tra i nostri, purtroppo. In particolare al popolo gli prude le mani per via dello Stato Islamico sezione libica che è arrivato al mare, al mare nostrum. Quella banda di assassini cannibali –“cannibali” è il grido di una donna di Mossul con il figlio sgozzato tra le braccia- ormai ce l’abbiamo alle porte di casa.
Al popolo sfuggono alcuni particolari tecnici che comunque gli apparirebbero di secondaria importanza. Pare in effetti, le fonti si contraddicono, che in Libia lo Stato Islamico non sia così presente come vuol far credere; in compenso ci sono due governi in lotta tra loro e una dozzina di tribù ben armate in lotta con tutti, e non appare così chiaro con chi e contro chi fare la guerra. Queste sottigliezze hanno convinto le Nazioni Unite e il nostro primo ministro –l’uomo più furbo del Paese, se mai si avesse avuto bisogno di una riprova- a mettere a cuccia il ministro della Guerra Pinotti e il suo stato maggiore parallelo, ma non il popolo, il popolo se ne sbatte dei particolari quando si decide per la guerra. Ci mette un bel po’ a risolversi per l’extrema ratio, magari decenni, e quando siamo al dunque non è che lo puoi far ragionare intorno ai dettagli, quelli se li sbrighino nei breefing. Qui siamo all’ora segnata dal destino. Mi viene da chiedermi come mai Euromedia non abbia nel suo sondaggio aggiunto la domanda: lei sarebbe d’accordo per una chiamata alla leva generale? Perché sono curioso di capire se il popolo ha anche disponibilità alla diretta partecipazione alla guerra. Ci sono un sacco di giovani senza alcuna occupazione che ciondolano per le vie delle città d’Italia, perché mai non dovrebbero essere disponibili alla guerra? Ci sono un sacco di genitori preoccupati per il futuro dei loro figli, la leva generale è la scommessa tutto sommato ragionevole per un nuovo inizio, porta il futuro all’oggi, a ora, a qui, a noi. Ci sarà chi ce la fa e ci sarà chi, è inevitabile, cadrà, ma è così per tutto, no? A meno che non ci si continui a crogiolare nell’immobilismo, ma l’immobilismo ha portato l’Europa alla più nera delle recessioni e lo Stato Islamico a bussare con la lama delle sue mannaie a casa nostra. Mi chiedo anche perché desti tanto scalpore e meriti così tanta considerazione massmediatica la svolta bellicistica di un popolo che ha voluto pensare se stesso pacifico per più di mezzo secolo. È talmente ovvio, è così ragionevole! Sono anni e anni che il popolo sta combattendo le sue guerre a bassa e modesta intensità. Guerre contro la depressione, contro la recessione, contro la malasorte, contro le caste e contro le cosche, contro il destino cinico e baro e contro l’indole nazionale. Le combatte disarmato e se le sta perdendo tutte. Molto, molto frustrante starsele a prendere; dieci, cento Caporetto senza mai vedere l’ombra di un Piave. Lo Stato Islamico è lì per farti saltare i nervi una volta per tutte. Il troppo pieno che ha chiuso il circuito delle buone maniere e delle buone intenzioni. Anch’io sono il popolo, anche a me mi stanno prudendo le mani. Da un pezzo, come a tutti gli altri, come tutti sono arcistufo di perdere le mie guerre disarmate. Come a tutti quanti mi verrebbe di mollare un cazzotto a mio nipote che non la vuole capire in nessuna maniera; un cazzotto, così, tanto per scaricare la tensione. Un appagante gesto di impotenza in piena potenza. Solo che ho un relè di riserva. Il mio relé è che la guerra l’ho vista per davvero, una delle guerre a fin di bene degli scorsi decenni. E se non mi fosse bastato quello che ho visto, e toccato, e annusato, il solo sibilo di una raffica di 30/30 a meno di un palmo dal mio culo mi ha messo a cuccia una volta per tutte. Tutto il resto sono solo dei discorsi. Il popolo non ha più la forza di stare lì a sentire dei discorsi, forse bisognerebbe riaprire le piazze d’arme e far provare al popolo l’ineffabile sensazione di una raffica di mitragliera pesante sia dalla parte del bersagliere che dalla parte del bersagliato. E poi rifare il test Euromedia. Chissà, magari il popolo ci prova anche gusto, e ci troviamo una massa di volontari da non saper dive mettere.
E se invece il popolo non esistesse? Cioè, se il popolo non fosse le sue chiacchiere, i suoi mi piace non mi piace? I suoi clic sulle faccine? Se il popolo, puta caso, fosse una entità un po’ più seria? Se io e il popolo fossimo una faccenda che i sondaggisti non sanno come rigirarsi tra le mani? Se fosse il popolo, oggi, il suo silenzio? Il tremendo, minaccioso silenzio del popolo. Che è rabbia e mitezza, grandezza e miseria, violenza e dolcezza di milioni di teste che non ce n’è una eguale. E tutto quell’esistere e pensare è così complicato e così lontano da essere inudibile. O intraducibile.
Il Secolo XIX, 22 febbraio 2015