Sull’alluvione in Liguria
Per questa domenica avrei voluto raccontare dei paesi di Pignone e di Casale, di quei due piccoli borghi dove la televisione non è arrivata con le sue spettacolari immagini di catastrofe a indurre negli spettatori globali i sentimenti più nobili e le più esaltanti generosità. Paesi troppo poco famosi e non abbastanza fotogenici, paesi patrimonio solo delle loro piccole comunità e non dell’umanità intera; paesi senza uno straccio di senatore o anche solo un presidente di qualcosa che li benefichi delle attenzioni e delle cure speciali dello stato. Paesi che non se li fila nessuno, e che pure hanno vissuto la loro tragedia come e più di quelli a cui tutti vogliono bene nel mondo. Avrei voluto raccontare di come l’alluvione si è abbattuta su di loro senza pietà anche se non si sono mai macchiati di gravi peccati contro la loro terra. Paesi che si sono rifiutati alle speculazioni di un turismo aggressivo, paesi il cui vanto da esibire a visitatori non fugaci e non affannati, è l’esser riusciti a tornare a coltivare le loro famose patate e i loro famosi fagioli, conquistando non ambasciatori e nastri azzurri, ma una piccola nicchia nel mercato ortofrutta. Avrei voluto raccontare di come, andando là a trovare i miei amici, li ho visti indaffarati oltre la loro stanchezza, infangati fino agli occhi, ma sorridenti a ogni pur piccolo successo del loro lavoro, la madonnetta del ponte ritrovata, la botte del vino messa in salvo, perché hanno coscienza che ciò che li può trarre in salvo è solo ciò che di vitale e speranzoso sanno salvare di se stessi dall’alluvione. Avrei voluto raccontare di quella botte di vino che appena risuscitata dal fango è stata offerta ai ragazzi che sono arrivati da Spezia, da Manarola, da Sarzana per dare una mano. Avrei voluto raccontare perché avevo un sacco di buone storie in serbo, perché, perché, perché.
E poi Genova alla radio, i miei amici al telefono, e poi, e poi i morti. I morti annegati nella pioggia, annegati nel cuore della città, nel cuore della vergogna della città più bella d’Europa.
E io non ho più niente da dire perché non c’è più niente che il mio cuore possa ancora provare. Perché tutto quello che c’era da provare, e da dire, io l’ho provato, e l’ho detto, una settimana fa, un anno fa, due anni fa, e tre e quattro e dieci anni fa. E adesso basta, davvero.
Men che meno ho da dire alcunché al sindaco di Genova, che lascio a fare il conto se e quanti morti in più o in meno ci sarebbero stati in città se avesse chiuso le scuole, al presidente della regione, e a qualsiasi altro sindaco o presidente o che. So che non è colpa loro, so bene che è colpa mia. È colpa mia perché, dopo aver visto, e provato, e scritto, per dieci anni tutto quello che ho visto e provato, non ho mai avuto la forza morale di andare a incatenarmi alla porta della Regione, o del Comune, o del Parco. Perché non ho mai avuto il coraggio di sdraiarmi davanti all’automobile di un sindaco o di un presidente; perché non ho mai, mai, sentito il dovere civico di prendere materialmente non metaforicamente, per la collottola uno di loro e strofinargli il muso sulle sue colpe e omissioni. La colpa è mia e non ho scuse; la colpa è nostra, di tutti quelli che hanno visto e provato e non si sono incatenati a niente e non hanno preso per il collo nessuno. La colpa è nostra, di tutto un popolo, il popolo di un Paese che, nonostante le molte disunioni, è ancora capace di unità. Sì, unito, unito nel degrado e nella dissoluzione. Questo popolo una cosa potrebbe ancora farla. Potrebbe prendere i suoi diecimila sindaci e trascinarli a porre l’assedio al consiglio dei ministri. Tenere i ministri in ostaggio fino a che non firmeranno un maxi emendamento alla legge di bilancio che finanzi il risanamento del territorio nazionale sotto la stretta sorveglianza del Fondo Monetario Internazionale, impiegando a salario sindacale alcune decine di migliaia di giovani in buona salute e in cerca di un’occupazione tutt’altro che alienante, ma che farebbe di loro gli eroi della ricostruzione del Paese. Non è forse quel genere di provvedimenti per lo sviluppo che l’Europa ci chiede?
E ancora una cosa. Non ho più niente da dire, ma solo da fare una minaccia, seria, ponderata. Se sento ancora una volta pronunciare l’aggettivo “imprevedibile”, giuro che, chiunque sia, lo vado a cercare per prenderlo a schiaffi. Qualunque cosa mi costi questo estremo atto di dignità personale.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 6 novembre 2011