Maurizio Maggiani: Incantesimo di maggio dolceamaro

Ed è tornata la primavera, turgida, madida, odorosa. Giù, nelle ombre del cortile adesso marezzate dalla luce del sole che volge verso il solstizio, i fiori della calla si sono aperti, ancora una volta più sinuosi e candidi, più casti e lascivi di quanto ricordassi fossero stati l’anno passato. E le rose; le millefoglie e le damascene, le boeme, le callas, le lollo, le rosse di Santa Rita, le scozzesi; e le antiche più antiche del mondo che sono andato a cercare e a rubarne una ferla nei più bei roseti d’Italia. E fino a due settimane fa erano appena con le foglie in germoglio e oggi a guardarle mi viene da piangere. Tutte in fiore, tutte assieme; e io che le ho pregate e ripregate per tutto aprile di fare con moderazione, a turno, di regalarmi il miracolo di un modesto mazzo quotidiano da tenere qui, sulla scrivania, fino a San Giovanni.
Il lusso più squisito e proibito che io sappia immaginare. Macché, eccole all’unisono in fiore, piccole e grandi, bianche, nere, rosse, gialle, viola, rosate, persino cangianti, timide e spavalde, che se ne infischiano dell’avvedutezza e della parsimonia, vogliono solo essere fiori e godere del loro giorno di splendore. Mi fanno un dispetto ma hanno ragione: ancora qualche giorno di sole e vento umido di meridione, e arriveranno i pidocchi, i ragnetti, le cocciniglie, e comincerà la lunga estenuante, noiosa lotta estiva per conservare un po’ di dignità e qualche foglia intatta per provare a ricominciare un altro anno ancora.
La collina intorno è tutta chiazze rosa e bianche e celesti: le acacie hanno fiorito i loro grappoli e questa mattina piovono i petali sulle strade e sui sentieri, leggeri planano sull’onda di un refolo di maestrale. Da quelle strade, su quelle crêuze ho fantasia per vedere ancora passare le spose di maggio, sotto quella pioggia feconda incedere radiose e regali verso la speranzosa fatica degli anni Cinquanta, mentre i loro uomini aspettano sul sagrato di una cappella di campagna rasati e odorosi di una qualche colonia in voga, con la cravatta stretta a un collo che da domani dovrà tollerare pesi che solo per oggi fanno finta di aver dimenticato: antica primavera d’Italia, costruttori a cottimo di strade e città, fonditori e fresatori a contratto della meccanica che spingerà il Paese di là dalle voragini delle guerre verso il duemila che non sanno nemmeno come immaginare. Solo ieri si sono svegliati un po’ meno presto del solito, hanno comprato il giornale, se lo sono infilato nella tasca posteriore dei calzoni e senza cravatta sono andati a sfilare per la festa del lavoro; orgogliosi dello stesso orgoglio con cui guarderanno le loro spose, e poi i loro figli: antica primavera di un’umanità innocente e furente, affamata di giustizia, colma di attesa.
So ancora ricordare tutto questo, ma dove sono oggi le spose, dove gli operai che ieri hanno marciato e oggi le porteranno all’altare? Eppure questo giorno di maggio ha lo stesso sole, la stessa fioritura, la stessa attesa. Calendimaggio. Il tempo delle fate, il tempo degli incantesimi d’amore, dei canti che finiranno a notte sotto la prima luna del mese, sotto la luna dove tutto cresce. “Siam venuti a cantar maggio, qui sull’uscio della sposa/ ma la sposa è andata via, è nel prato a coglier fiori”.
Vorrei aver marciato anch’io ieri, vorrei sposarmi anch’io oggi. Vorrei essere un uomo capace di onorare il lavoro e l’amore, testimone di ciò per cui si vive senza l’agonia del sopravvivere. Ma ieri per la festa del lavoro non c’era nessun posto dove esibire l’orgoglio di aver lavorato. E oggi Oggi posso ancora sposare. Scendere giù con il vestito buono, cercare la mia ragazza e portarla a convolare sotto la pioggia delle acacie. Perché no? Ci sarà ancora qualche chiesa aperta sulla collina, qualche amico che se la sente ancora di testimoniare per me. Che altro fare a Calendimaggio se ancora resta un poco di innocenza e abbastanza orgoglio di umani?

Tratto da “Il Secolo XIX”, 3 maggio 2009