Maurizio Maggiani: No privacy, il prezzo del potere
Sono fermamente convinto che un leader politico, un capo di Stato, e persino il capo di una fede religiosa non abbiano diritto a privatezza e riservatezza alcuna.
Nell’accettare il grande onore e l’enorme potere che derivano dalle loro cariche, non appartengono più a se stessi ma alla comunità che rapprentano, che devono rappresentare, giorno e notte ogni secondo della loro vita finché sono a disposizione del pubblico.
È un grande sacrificio e un peso che può risultare insostenibile per i meno forti, ma i meno forti non sono adatti alla gestione dei grandi poteri, ed è il minimo necessario che è richiesto loro perché mai possa accadere che si dubiti o si fraintenda della loro superiore personale qualità morale, fisica, intellettuale.
Il fatto che la sede del loro potere debba essere di vetro, che possano essere ascoltati, osservati, controllati, che debbano rispondere di ciò che fanno, dicono, e sono, non è una deviazione dal naturale rapporto tra rappresentati e rappresentanti, ma la normalità necessaria al permanere del rapporto di totale fiducia e appartenenza che è indispensabile a una cessione consensuale del potere.
Questa roba non me la sono inventata io, ma la consuetudine plurimillenaria ovunque e in ogni civiltà e cultura si stabiliscano rapporti impari tra sudditi, cittadini, fedeli e una o più persone che rappresentino un potere fisico, spirituale, istituzionale, politico su di essi. È la condizione del potere, è il suo prezzo, che per altro è sempre stato pagato senza resistenze opposte con successo, basti ad esempio la popolarissima vicenda dell’erede al trono di Inghilterra e della sua consorte Diana.
In piena ripresa economica e boom dei salari l’uomo più potente del mondo, il presidente Bill Clinton, è stato sottoposto a un lungo e duro pubblico processo a causa della sua negligenza sessuale, e dalle sue privatissime immoralità è stato emendato solo dopo essersi sottoposto con penosa umiltà al giudizio del Senato e del popolo americani. Ma duemila anni prima Senatus PopulusQue Romanus non hanno perdonato le negligenze sessuali del riottoso imperatore Claudio Nerone, che rivendicava il diritto a innamorarsi di chi gli pareva a lui, nonostante avesse appena ridotto la ferma dei legionari e dato l’avvio a monumentali opere pubbliche destinate ad arricchire il popolo e il Senato.
Regine di ogni casato si sono umiliate a partorire sotto gli occhi inquisitori dei loro duchi, e non di rado le stesse reali copule si sono esplicate sotto lo sguardo critico dei ciambellani. Da 1200 anni, appena eletto, il papa di Roma si sottopone alla visita delle parti intime, e solo il solenne pronunciamento “testiculos habet” consente allo stesso di essere pubblicamente proclamato successore di Pietro. Fino a ieri l’imperatore del Giappone e la sua consorte non potevano neppure decidere chi era il loro figlio ed erede, che veniva scelto da una commissione ad acta tra una selezione di bambini concepiti dallo stesso imperatore indifferentemente con moglie e concubine; persino gli affetti più intimi non appartengono più alla privatezza della persona, ma sono proprietà dell’impero, persino, letteralmente, il contenuto del regale vaso da notte è oggetto di controllo e valutazione.
Del resto a un re non è neppure concessa la libertà di religione, e deviare dalla vera fede gli è potuta costare la testa. L’eroe di Salamina, salvatore della patria ateniese, Temistocle, fu cacciato in esilio perché sospettato di aver giocherellato, ubriaco, con le erme di Eracle, le effigi ignee del sacro pene del mitico semidio; ad Atene come ovunque era il potere giudiziario ad assumersi la responsabilità del controllo e della sanzione per conto del popolo. In ogni caso più è grande il potere assunto o assegnato più è ferreo il principio della spoliazione della privatezza; più forte è il simbolo, più feroce è il controllo sulla sua personificazione, perché è solo in questo modo che il potere può essere tollerabile a chi gli è soggetto, satrapi, principi, oligarchi, fedeli o cittadini che siano: è lì sopra noi tutti solo perché è il migliore tra noi, solo perché in ogni singolo momento e minima azione ne possiamo constatare l’evidenza. E quando la figura che incarna il potere intende sottrarsi a questo principio, la conseguenza diretta è la decadenza e il disfacimento del potere stesso. Infatti ciò che ricordiamo, sbagliando, è che l’impero di Roma non è crollato sull’insostenibilità del sistema tributario o sull’indifendibilità delle rotte commerciali, ma sulla dissolutezza fino alla marcescenza dei suoi imperatori e dei suoi senatori.
Questo nell’ambito della storia universale; per quanto riguarda la storia dell’Italia contemporanea è probabile che regole e consuetudini si obnubilino in una mirabolante eccezione. Chissà. Ma di certo sbaglia il primo ministro Berlusconi a pretendere massima privatezza nella propria vita personale e politica e insindacabilità della stessa. È lui che ha inaugurato un nuovo periodo repubblicano, imponendo la propria figura e lo straordinario potere che gli intende assegnare, come metro e confronto, come esempio e soluzione; è lui che ha voluto, fortissimamente, entrare e prendere possesso della stanza dove letto e pitale non gli appartengono più. Di norma, salvo tardo repubblicane eccezioni.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 6 luglio 2008