Maurizio Maggiani: L’Ici e la lotta di classe

Il mio articolo di domenica scorsa con il titolo “Dieci capre con i soldi dell’Ici”, ha generato una grande messe di lettere dei lettori, pubblicate nei giorni scorsi e ancora in pubblicazione, in stragrande maggioranza ositli alle mie opinioni. Bene, un buon giornale è questo: la voce delle voci della comunità. Se Maggiani è il male, non tutto il male vien per nuocere. Anche se non mi capacito in che modo ho insultato i poveri (Margherita Vanessa) o criminalizzato l’iPod (Claudio di Tursi), ho ben chiaro che i lettori scrivono di cose vere e che sentono vere. Per questa ragione l’articolo di oggi prenderà spunto da una di queste lettere, non ancora pubblicata, per poter aggiungere ancora qualcosa di mio e rispondere in un sol colpo ai più. Il signor Ludovico Lete mi rimprovera di aver usato, per criticare l’attuale governo, la mia “odiosa e manifesta volontà di suddividere gli italiani in classi di lavoratori: gli sventurati operai (classe eletta a cui ha appartenuto il povero Geppetto che si è sacrificato per lei rinunciando a camicie nuove e sigarette per comprarle la tessera di biblioteca) che pagano le tasse, unici a farlo, sacrificando le loro virtù a beneficio del padrone. Dall’altra parte, con denti affilati e cuori ormai di pietra, i commercianti. O gli artigiani. O dentisti, notai e commercialisti. Evasori e laidi bottegai nello spirito”. Secondo il signor Lete, i lavoratori “sono un tutt’uno”, ma mentre la sua vita di lavoratore autonomo è costellata di sacrifici (incertezza sulle entrate a fine mese, pochissime ferie, zero tempo libero e perfino disagi del posto di lavoro, “scarsamente illuminato”), il lavoratore dipendente pubblico “usufruisce di trenta giorni di ferie estive (gli insegnanti penso un paio di mesi)”, più la Pasqua, i ponti, il periodo fra Natale e l’Epifania, e dunque “è lui, dei due casi, l’uomo che ha tempo per dilettarsi, per recarsi in visita ai musei, per seguire figli e nipoti”. Mi invita quindi a “far capire alle persone ‘comuni’ che sono tutte situate su un’unica barca e che se un uomo guadagna più di un altro è possibile che abbia però meno in cambio in altri campi”. Mi spiega che molti “poveri” dipendenti inclini a protestare contro la ricchezza del vicino sono “semplicemente invidiosi”. E conclude: “Perché conformarsi al sentimento comune di protesta cavalcato dalla politica più meschina? Se gli autonomi (lavoratori) non pagano le tasse è perché il sistema fiscale è fallace. Se lo faccia spiegare da un fiscalista (…). Almeno la domenica, scriva favole per adulti. Mi trasporti in un mondo incantato, mi suggestioni, mi arricchisca dipingendo realtà che sono lontane. Non si ostini a fare le veci dell’Agenzia delle entrate, non è questa la strada verso la quale il suo attento genitore l’ha indirizzata”. Gentile signor Lete, gentile collega, sono anch’io un lavoratore autonomo precario, imprenditore di me stesso, sottoposto alle leggi del mercato, fregato alla grande dai fondi pensionistici. A differenza di lei esercito a casa mia e posso godere di una postazione di lavoro che dà sulla collina; vedo i fiorellini, mi giunge il loro profumo, sento gli uccellini cantare e al mattino anche il gallo del vicino dare il segnale orario, anche se un po’ in ritardo sull’alba. Tale postazione di lavoro è compresa in un appartamento di 70 metri quadrati (più terrazzo in uso esclusivo) in zona adiacente al centro città, accatastato come A3, classe IV, per cui pago, pagavo, 231 euro annuali di Ici. Per il resto verso tutte le tasse dovute innanzitutto perché non posso fare altrimenti, visto che i miei clienti denunciano le loro uscite e sono ben contenti di farlo; sarò invidioso, sentimento deprecabile, ma non riesco a solidarizzare con chi può non essere costretto ad essere ligio come me. È umano, non le pare? Come so che è umano il suo atteggiamento non propriamente solidaristico con i pubblici dipendenti. Sa una cosa? Potrei raccontarle storie edificanti su quella massa di “fannulloni”; ne conosco di veramente patetiche in particolare sugli insegnanti, roba stile “Cuore”, ancora più patetiche della triste vicenda di Geppetto – a proposito, mio padre si chiama Dino, non Geppetto, e io non sono venuto bene come Pinocchio – che forse potrebbero addirittura indurla alla commozione, e persino valicare il suo risentimento verso di loro. Purtroppo, per mia disgrazia e sua costernazione, non conosco mondi incantati da raccontarle, non ne vedo più da un pezzo di incantevoli realtà da cui trarre confortevoli favole. Ciò che vedo nel mondo, ciò che tocco e sento, non è adatto a questa antica tradizione lenitiva. Per disgrazia di noi tutti non siamo nella stessa barca, magari fosse così; magari non esistessero più le classi sociali, le differenze atroci tra me – dico me e non lei, per portarle rispetto – e i sei operai che sono morti l’altro ieri in un lago di fango infetto. Forse potremmo metterci d’accordo io e lei, nello stesso modo in cui si mettono d’accordo Walter Veltroni e Gianni Letta – e spererei che il nostro accordo fosse un pochino più nobile del loro – ma non credo che possano farlo le vedove e i figli di quegli uomini, né loro stessi se fossero ancora in vita. E nemmeno i milioni di umani di questo Paese che vivono, e muoiono, non diversamente da quei sei. Solidarizziamo con loro post mortem, ma non credo che questo li renda felici di appartenere a un mondo dove io sento gli uccellini che salutano il calar del sole mentre sto, come in questo momento, lavorando; se mai potrebbero pensare che questo mio sia un lavoro e non un sollazzo. La “base” non è fatta di una massa informe di “gente”, ma di individui e gruppi sociali, culturali ed economici in relazione con altri individui e gruppi con aspirazioni, bisogni, diritti spesso in legittimo conflitto tra loro, come è sempre stato e come sarà fino alla assai improbabile realizzazione in terra del regno dei cieli. Nella “base” è addirittura compreso un 20% di famiglie assai poco floride che non possono neppure pagare il mutuo e vivono in affitto; un affitto che non gode di alcuna protezione contro ogni genere di speculazione e vessazione. Non credo che loro si sentano sulla stessa mia barca; forse mi invidiano, non è umano? Forse mi odiano, ed è ancora più umano. Forse vorrebbero semplicemente avere una vita dignitosa senza invidiare e odiare nessuno, ma questo pare gli sia precluso; fatalità del destino che punisce gli incapaci, o un sistema sociale ed economico che ha bisogno di molti da mandare a morire nel fango per rendere piena di soddisfazioni la vita di pochi? Mi pare che lei abbia maturato una sua idea al riguardo diversa dalla mia; legittimo conflitto di idee. Vede, caro collega, nel mio articolo che può ancora consultare gratuitamente nel sito di questo giornale (www.ilsecoloxix.it), non ho speso una sola parola di critica né verso l’attuale governo né verso l’abolizione della tassa comunale, ma ho posto una domanda a me stesso e a quella parte della “base” che non ha immediati problemi di sopravvivenza: cosa ne faremo dei soldi che ci vengono dall’abolizione dell’odioso balzello e a cosa rinunciamo? Mi aveva colpito la pubblica dichiarazione del ministro Sandro Bondi circa il taglio dei fondi ai beni culturali. I lettori di questo giornale sembra che siano in maggioranza dell’idea che rinunciare ai beni culturali sia lieve danno, imparagonabile al danno che ci viene da una tassa, con sfumature che vanno da “chi se ne frega della cultura” a “prima il necessario e poi il superfluo”. Questo perché si ritengono bisognosi di molto altro prima che di cultura, anche se, ripeto, ho scritto per me e per quanti non stanno patendo sotto il tallone di ferro dell’indigenza. Bene, è un fatto, è un clima, è, se posso dirlo, una cultura. Ne prendo atto, sapendo che un clima e una cultura non sono un destino, ma l’esito di una storia fatta dagli uomini, una storia che si muove e si muta.

“Tratto da “Il Secolo XIX”, 15 giugno 2008″