Maurizio Maggiani: Genova, sei anni dopo il G8. Come a una parata di reduci

A volte va tutto bene. E siccome alla fine ogni cosa è a posto è come se non fosse successo niente. Lo vedo da come scalpita insofferente la giornalista tv che ha passato mezz’ora a discutere con il cameraman il taglio di ripresa che le sta meglio, e ora è lì che non ha da dire niente di “forte”. Già, non è stata una giornata forte questa. Niente incidenti e dunque in definitiva una giornata insoddisfacente, almeno per i media. Eppure qualcosa mi sembra di aver visto accadere andando su e giù per una quieta manifestazione di protesta, girovagando per una città silenziosa dove una buona parte dei negozianti si è convinta a tener giù la saracinesca, e un sacco di genovesi a farsi un fine settimana in disparte. Sì, qualcosa di forte mi sembra che sia successo.
È successo che se in quello che è accaduto nei giorni del G8 c’era un disegno, e il disegno era debilitare, o demolire, i movimenti, questa intenzione ha raggiunto uno straordinario successo. I movimenti non esistono più. Non quella moltitudine di voci, di intenti, di energie, di linguaggi, di attese e di speranzosa creatività che ho conosciuto negli anni e ho vissuto in quei giorni del 2001. I movimenti – così genericamente definiti perché troppo diversi da qualunque roba politica meglio classificabile – sono fatti delle persone, non delle organizzazioni; le persone, quelle persone, sono ancora vive e vegete, ma sono silenziose, o altrove.
Ho incontrato qualcuno, ma non le sue energie, non quelle che hanno fatto sperare in un modo diverso e gioiosamente attivo di vivere la vita e le sue responsabilità, la propria vita e quella del mondo; il destino dei “sei miliardi di figli dello stesso Padre”, come era scritto nelle magliette che distribuivano le suore di Boccadasse, e ho visto sporche di sangue e di lacrime sul petto di ragazze manganellate ben bene sabato 21 luglio 2001 all’altezza di via Casaregis. Ciò che è accaduto quel giorno, e il giorno prima, e la notte dopo, ha traumatizzato centinaia di migliaia di persone, di giovani cittadini soprattutto; ha distrutto un immenso patrimonio di energie promettenti e ha creato dei reduci.
Lungo la manifestazione ho incontrato molti reduci. E non c’è molto di promettente e creativo nella forma mentis di un reduce, soprattutto se ha poco più di vent’anni. Il trauma non è stato assorbito; non credo che lo sarà, non certo in una manciata di anni. Così le voci che si sentono, quelle che si fanno sentire, sono le meno interessanti: quelle dei partiti politici, dei loro rappresentanti nei movimenti. Niente da dire, tutte brave persone, ma li ascolto e mi sento portato altrove, lontano da quel territorio magmatico, libero, non ideologico, dove si stava formando un pensiero, quello sì veramente nuovo, che se oggi ancora c’èè un pensiero sottomarino.
E è successo che neppure questa città ha superato il suo trauma. Se lo cova dentro silenziosa, sentendosi guardinga, “smenata”, disillusa. Non è solo una questione di serrande abbassate, ma di atmosfera, di sentimento, di ciò che si percepisce ogni volta che per qualche ragione di torna a dare un’occhiata alle ferite che si è curata da sola. Se c’è stato un disegno e parte del disegno era quello di dare una lezione a questa città, anche questo obiettivo è stato raggiunto.
I molti che come me nei giorni del G8 sono stati testimoni hanno la certezza, intima e radicata, che ciò che è successo è quantomeno da spiegare e da capire ancora. Che senza una verità e una ragione non potremo mai riabilitarci da reduci in cittadini nuovamente promettenti. Verità e ragioni che non riguardano solo questa città e chi in quei giorni ci ha vissuto, ma che gli uni e l’altra hanno il diritto di pretendere come primo risarcimento. Non sono così convinto che una commissione parlamentare è di per sé in grado di darmi ragioni e verità, di risanare i traumi rendere giustizia delle vittime, ma so che è il minimo che devo pretendere. Il fatto è che non ci sarà mai una commissione d’inchiesta sui “fatti” del G8 del luglio 2001, e se mai si dovesse istituire, accadrà troppo tardi perché possa ancora servire a sanare la ferita che resterà infetta per il resto della storia mia, della mia città, di questo Paese.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 18 novembre 2007