Maurizio Maggiani: Tassate il pane dei non poveri
Ci sono i poveri e ci sono tutti gli altri. I poveri io li vedo quando il mercato sta chiudendo e si fanno avanti per trovare qualcosa di buono tra i rifiuti dei banchi di frutta e verdura. Li riconosco quando si aggirano con circospezione davanti alla parrocchia il giorno della distribuzione dei pacchi con dentro gli alimentari. Li guardo bene negli occhi quando alla cassa del supermercato lasciano alla commessa una scatola di tonno o una busta di detersivo perché hanno fatto male i conti.
Sono perlopiù anziani, ma i poveri diventano anziani già a cinquant’anni. Loro, i poveri, si sono accorti del rincaro del pane ben prima dei giornali e degli enti statistici perché fanno la spesa con un borsellino pieno di monete da venti, dieci, cinque, due centesimi, e contano ciò che pagano e il loro resto centesimo per centesimo. All’aumento del pane hanno reagito nell’unico modo che gli è dato: ne hanno comprato un po’ meno. Mezz’etto, un etto al giorno in meno; possono farlo, non moriranno di fame per questo. Ringraziando Iddio, le leghe sindacali e i partiti popolari, da qualche decennio non si muore più di fame in questo Paese.
Al tempo che di fame si poteva ancora morire, il rincaro del pane poteva accendere un’insurrezione popolare e ci voleva l’esercito per tenere a bada gli affamati. Umberto I di Savoia, detto non a caso “il Re Buono”, si trovò costretto a cannoneggiare il suo popolo che protestava per via dei prezzi del pane. Era il 1898. Trenta anni prima un ministro delle Finanze rimasto celebre, Quintino Sella, aveva inventato una stupida tassa sul macinato, la farina. Grazie a quell’imposta il governo, di destra, riuscì a pareggiare il bilancio statale, ma sull’onda delle successive proteste nacque in Italia il movimento sindacale e politico “di massa”. Così la sinistra vinse le elezioni del 1876. E abolì la tassa sul macinato.
Per fortuna se aumenta il pane oggi non insorge nessuno; disgraziatamente, quell’aumento non sanerà nessun bilancio statale, ma solo quello dei fornai. E, che mi risulti, c’è un unico capopopolo che ha brandito l’arma dello sciopero contro il rincaro del pane, e della pasta, soprattutto della pasta. È l’Udeur, il cui leader, Clemente Mastella, ha offerto il suo volto come testimonial della giornata dello sciopero della pastasciutta. Con tutto il rispetto per il signor Mastella, la sua faccia associata al popolo affamato assume l’inquietante aspetto di un ossimoro di cattivo gusto. Alla fine i poveri se ne stanno buoni, mangiano qualcosa in meno e tirano avanti.
Poi ci sono tutti gli altri, quelli che gli spiccioli non sanno mai dove ficcarseli, che buttano l’occhio sul cartellino del prezzo ogni tanto, e che non ricordano bene quanto hanno pagato ieri il filoncino ai quattro cereali, il pane che oggi il giornale appena letto denuncia in forte aumento. Questi altri, i non poveri, si sobbarcano come spese essenziali un 50 euro di cellulare e un 150 di benzina mensili, un paio di centoni a stagione per l’abbigliamento, un 15 o 20 euro settimanali per qualcosina al bar; e poi un paio di pizze e un paio di cine al mese, una gitarella. Ciò che ci appare ragionevolmente il minimo per una vita decente. In mezzo a tutti gli altri ci sono i ricchi e i ricconi, e questi sono un’altra storia e un altro mondo, e li terrò fuori dalla considerazione che segue.
Per quelli come noi, per tutti gli altri “normali”, non poveri e non ricchi, il pane dovrebbe costare almeno cinque volte il prezzo attuale. Almeno in un mondo dove il prezzo delle cose fosse basato sul “giusto” prezzo. Dipendesse da me sanerei il bilancio statale al modo di Quintino Sella: applicherei un’imposta tremenda sul pane, esenti solo i poveri. E sarebbe una tassa di inaudita bellezza. Perché oggi il pane costa così poco che ne possiamo comprare quanto ce ne pare e piace, come fosse un niente.
Il pane dei non poveri sfama i cassonetti dell’immondizia, non le famiglie. Ho fatto un conto su di me, io che ho grande rispetto per il pane, io che sono famoso tra gli amici perché metto in tavola il pane intero chiedendo che ognuno se ne serva per quanto ne ha bisogno, invece di mettere lì una sventagliata di fette che nessuno mangerà. Bene, i miei conti mi dicono che ogni giorno ne butto via almeno un etto. Per mille idiote ragioni. Sono qualcosa come 200 euro l’anno. Quanto un governo pietoso ficca nella calza della befana di un pensionato.
Mi piacerebbe sapere quanto pane c’è in un cassonetto; quanto ne butta una famiglia tutti i santi giorni di tutto l’anno. Come fosse scorze di verdura, carta straccia, rumenta qualunque. Come fosse niente, appunto. Un chilo di pane può nutrire un uomo adulto a sazietà per tutto un giorno; finché costerà come un’inutile, estenuante telefonata alla fidanzata, o mezzo aperitivo al caffè, non varrà niente. E nessuno che abbia un reddito che gli permette quella telefonata o quell’aperitivo ha il diritto di lamentarsi se aumenta anche di un euro al chilo. Infatti, nonostante il bel volto del signor Mastella ci inciti a farlo, tra tutti gli altri non si lamenta nessuno. E i poveri, chi li sente?
Tratto da “Il Secolo XIX”, 21 ottobre 2007