Maurizio Maggiani: Vivere è darsi uno scopo
L’altra sera io e il mio ineffabile nipotino Richi abbiamo preso assieme una grossa decisione; di certo la più importante da quando ci conosciamo. Il processo che ci ha portato all’impegnativa risoluzione è iniziato a luglio, per il suo compleanno, e ci ha richiesto un gran lavoro di discussioni, di esplorazioni, letture, e visite a specialisti. Abbiamo più volte consultato il nostro amico Costantino e passato più di una domenica a contemplare il suo lavoro e la sua arte nel realizzarlo, abbiamo elaborato, e poi scartato, diversi piani di fattibilità, esaminato decine di volte i pro e i contro, e infine consultato e verificato lo stato della nostra coscienza. Ma ora la decisione è presa: costruiremo un grande plastico ferroviario che si svilupperà in cantina per una superficie preventivata di non meno di quattro metri quadri. Sappiamo a cosa andiamo incontro; il nostro progetto ha una data di scadenza: il raggiungimento della maggiore età di Richi, abbiamo davanti a noi nove anni di lavoro e di responsabilità. Ci siamo dati delle regole e non è detto che riusciremo a osservarle, ci siamo dati degli obiettivi ambiziosi e non è dato che saremo capaci di raggiungerli. Dovremo confrontare innanzi tutto i nostri arditi progetti con la dura materia delle nostre economie; la prima spesa importante la faremo a Natale e sarà per un locomotore 656 Caimano in offerta, perché il Caimano è il nostro preferito e coglieremo l’occasione, ma poi, e per un bel pezzo, dovremo investire in legnetti, erbette, sassolini, colori, scambi e binari, segnali, chiodi, colle e olio di gomiti; tutta quella roba poco gratificante su cui dovranno viaggiare i nostri convogli. Li abbiamo già scelti quelli, nei cataloghi, e dipendesse da Richi li avremmo comprati già tutti in un colpo solo, con il bottino di una rapina che aveva in programma; invece abbiamo buttato giù un piano di risparmio pluriennale, e questa è la parte più ansiogena del nostro progetto: riusciremo a rinunciare con costanza a molte cose che ci piacciono per alimentare un’idea di cui più di una volta stenteremo a vedere la fine? Una cosa è certa: lasciato a metà, anche solo trascurato in una sua piccola parte, il nostro plastico sarà un fallimento. Questo ce lo siamo detto e ridetto; siamo due soci di un’impresa a responsabilità illimitata. Mi chiedo come passeranno questi nove anni, come cambieremo, e in cosa, mentre il nostro plastico andrà avanti. Alla fine lui avrà diciotto anni e io sessantacinque, e se la nostra impresa la vedo da qui mi sembra una follia. Chi intorno a noi se la sente di progettare a scadenza così lunga? Metà dei matrimoni celebrati cinque anni or sono si sono già conclusi con una separazione, forse che un plastico ferroviario è meno impegnativo? Vogliamo costruire una linea locale, una merci e una ad alta velocità; come potremo riuscire noi a portare a termine la nostra Tav se non ci riusciranno con quella vera? E sì che hanno cominciato dieci anni prima di noi. Quanti patti d’onore sono stati stretti mentre io e Richi stringevamo il nostro, e quanti di quelli vedremo sciogliersi mentre noi cercheremo di rafforzare il nostro. Nel corso di lunghi anni in cui Richi incontrerà le ragazze, imparerà ad andare da solo per il mondo, e io invecchierò, troverò nuovi motivi di delusione e di stanchezza. Ci sarà ancora il Partito democratico quando avremo finito il nostro plastico? Ricorderemo il nome di anche uno solo degli uomini che oggi ci sembrano i padroni del mondo e della nostra vita? Richi è caparbio e io non potrò deluderlo; per questa ragione penso che potremo farcela, anche se in fin dei conti è solo un plastico ferroviario. Ma è un progetto, e senza progetti la vita va sciupata, e si può soltanto far passare il tempo, si può solo invecchiare e aspettare che le cose finiscano. Poi, quando tutto sarà finito, guarderemo quello che avremo fatto, accenderemo le luci, daremo corrente ai binari, toglieremo il blocco agli scambi dello scalo e il prode Caimano prenderà l’abbrivio per il duro tratto appenninico. E noi ci metteremo a pensare a qualcos’altro.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 14 ottobre 2007