Maurizio Maggiani: Le regine di Samoa e i bamboccioni

Nelle isole polinesiane delle Samoa Occidentali c’è una frase standard con cui le giovani donne rifiutano un’offerta di matrimonio: “Laititi a’u”, sono troppo giovane. Solitamente non sono affatto troppo giovani, semplicemente non desiderano cambiare vita; finché restano nella famiglia della madre – in Samoa vige uno stretto regime patriarcale – godono di libertà e disimpegno nelle loro relazioni affettive e sociali. Se la spassano, per così dire, e al loro spasso non intendono rinunciare, almeno finché possono. Lo faranno, tardivamente, intorno ai 25 anni, quando saranno stufe di sgobbare per la casa materna; perché alle ragazze, in cambio della libertà, viene chiesto un duro impegno nei lavori domestici e nella crescita dei fratelli e sorelle minori, dei cugini e di tutta la parentela matrilineare.Si sposano dunque, seppur malvolentieri, e al tempo dovuto diventeranno loro stesse matriarche, così che la loro perduta libertà di giovinette sarà risarcita con uno status di grande potere e ascendente.
I maschi di Samoa, invece; beh, loro sono cacciati di casa subito dopo la pubertà, vivono con i loro coetanei in case comuni, imparano a pescare e a costruire e quindi sono invitati con energia a farsi una famiglia. Così che iniziano a importunare le ragazze con le loro richieste di matrimonio, finché non troveranno quella che risponderà sì. Il sistema matriarcale samoano si è dimostrato nel tempo assai equilibrato e ha garantito una stabilità sociale invidiabile, oltre a quel meraviglioso sorriso che ha sorpreso e affascinato i viaggiatori occidentali.
Se do credito a quello che mi raccontano le mie giovani amiche, alle lettere indirizzate alla posta del cuore delle loro coetanee, ai risultati delle molte indagini sociologiche, anche in questo Paese, esattamente agli antipodi geofrafici delle isole Samoa, la formula “Laititi a’u”, sono troppo giovane, è quella usata per respingere un’offerta di matrimonio. Con la differenza, appropriatamente antipodica, che a pronunciarla sono i giovani maschi.
I quali maschi, se e quando decidono infine di acconsentire alle pressanti richieste femminili e formare un nucleo familiare autonomo, non fuggiranno dagli onerosi impegni a cui sono costretti nella famiglia di provenienza. In quella famiglia di fatto non svolgono alcun ruolo se non quello di usufruire delle risorse messe a disposizione dalle generazioni precedenti, né sono investiti di alcuna responsabilità; non accudiscono nessuno perché non c’è nessuno da accudire se non loro stessi, godono di molti privilegi assolutamente gratuiti, compreso quello di poter permanere in una condizione di infantilità.
Da qui, immagino, la definizione di “bamboccioni”, impudicamente pronunciata in pubblico dal ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Una generazione di bamboccioni; maschi, visto che il sostantivo, anche volendo, non è declinabile al femminile. Bamboccio è un bambino privo ancora di parola e di ragione, quasi un oggetto, dice il sommo dizionario Battaglia. La condizione del bamboccio è l’impotenza e l’inanità. Non è possibile che un’intera generazione di giovani maschi a cui, da quando esistono i mammiferi, è assegnata la condizione di potenza e responsabilità, rinunci alla sua stessa natura ed essenza? Naturalmente non è possibile. Eppure se non volete dare credito a Padoa-Schioppa, ascoltate le giovani donne che non riescono a trovare “pane per i loro denti”, imbarazzate della loro stessa superiore capacità di decisione e di responsabiltà.
Qualcosa dunque è successo, e non certamente una mutazione genetica. Uno choc culturale può indurre all’invalidità? Questo è certo. A estinguere interi popoli nel giro di un paio di generazioni non sono bastati i massacri in sé, ma l’espropriazione violenta delle loro culture, ultimi in questo secolo gli aborigeni australiani. Forse che in questo Paese si è progettato e messo in atto il genocidio culturale del genere maschile? No, ma qualcosa è stato fatto nell’arco di un passaggio generazionale.
Io non sono stato un bamboccione. A diciott’anni avevo già casa mia, a ventuno la mia prima famiglia. Non sono stato cacciato da casa, ma avevo voglia di andarmene e potevo farlo; appena diplomato ho avuto un lavoro, precario, nella scuola. Ho pagato l’affitto con un terzo del mio stipendio, 15.000 lire per una casa che mi piaceva. A vent’anni ho avuto la mia prima opportunità di fare di più e meglio: assunto dalla Olivetti con uno stipendio iniziale di 147.000 lire; più di quanto guadagnava mio padre dopo trent’anni di marchette. Per amore di una donna, con cui ho poi messo su casa, una nuova, ho lasciato quel lavoro e me ne sono trovato un altro, precario ma bello. E poi ancora, seguendo le mie inclinazioni e i miei sentimenti. A 30 anni ho vinto due concorsi e ho dovuto scegliere tra due posti fissi. Ho scelto, ho sbagliato e dopo dieci anni sono tornato a cercarmene un altro, quello che continuo a fare con grande soddisfazione e nell’assoluta precarietà. Una precarietà che mi sono scelto, che vivo come un’inclinazione, e che mi infonde ancora un gradevole senso di potenza e di apertura verso il futuro.
Ho cambiato dieci lavori, dieci case, molte città; ho vissuto da giovane uomo una realtà mobile, imprevedibile e promettente. Comunque andasse non poteva che andare meglio, se solo mi fossi impegnato a far sì che così fosse. Assumermi le mie responsabilità era nella natura delle cose, visto che nessuno voleva o poteva assumersele per conto mio; e questo mi ha condotto a non temere di soccombere alla realtà anche quando era difficile e oscura: l’Italia non era il Bengodi. Questa è stata la vita del figlio di un operaio di una città di provincia, non diversa – sono certo – da quella di molti altri giovani uomini della mia generazione.
La domanda è: quale giovane potrebbe oggi vivere un’esperienza come la mia? Quali delle condizioni di cui sopra gli sono messe a disposizione? Come e dove potrebbe dispiegare le sue potenzialità, le sue risorse interiori, le sue pulsioni? Cosa c’è di promettente, di mobile, di imprevedibile nella realtà sociale di oggi? Quanto ottimismo può mettere nel suo curriculum uno qualsiasi delle migliaia di giovani che chiedono alla Società Autostrade di essere assunti stagionalmente per fare l’esattore al casello?
Non credo che la realtà sociale più ferma e stantia e frustrante d’Europa sia frutto di un complotto delle mamme d’Italia devastate da un criminale complesso edipico rovesciato. Ma credo invece a un devastante choc culturale e psicologico. Trovarne i responsabili non è impossibile, ma pretenderebbe una rivoluzione che non ha ancora la sua avanguardia.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 9 ottobre 2007