Maurizio Maggiani: Difendere la famiglia è un dovere etico ma la natura non c’entra nulla. Parola di gatto
Non sono un eroe e men che meno un santo, eppure qualcosa di eroico e santo, microscopica testimonianza dell’assoluta gratuità della Grazia, alberga anche in me, almeno in un gesto dei mille che il quotidiano mi sottopone. Già, sono un eroe e un santo se ancora non ho fatto fuori i gatti del cortile di casamia. Sappiate che sec’è una cosa a cui tengo,un lusso a cui non so rinunciare, un vizio da cui non intendo purgarmi, sono le rose. Coltivo rose con una dedizione che, temo, non ho sempre applicato agli esseri umani che ho incontrato; coltivo rose per puro, semplice amore delle rose, e loro a volte mi ricambiano con eguale e maggiore generosità, altre volte no. Ma non me ne dolgo. Amo le rose anche per la loro bizzarria, per quella selvatica ruvidezza di carattere che spesso nasconde una tenera fragilità. Ho rose rifiorenti, rose moderne,ma prediligo le antiche e le antichissime; ne ho dodici diversi ceppi nel terrazzo e quattro nel cortile.Nel cortile ho piantato quelle che amo di più: le rose di Santa Rita; sono nel cortile perché sono robuste e di modeste pretese alimentari, e sono lì perché le signore del mio quartiere possano prenderne qualche mazzo, senza dovermi chiedere permesso, quando è necessario addobbare la via per qualche sposa o l’altare della chiesa per la festa della patrona, santa Rita. Quelle rose, le mie rose del mio cortile, rischiano di morire fra atroci dolori; un giorno via l’altro, senza che io riesca a trarle in salvo. A causa dei gatti, già, i gatti della via, i gatti delle buone famiglie della via che evadono dai loro comodi divani, infilano la porta di casa, e si riuniscono per fare la pipì, tutti quanti, al piede delle mie rose. Non c’è gattifugo che tenga, né minaccia alcuna, né preghiera; fare la pipì sulle mie rose è l’unica libertà che possono ancora prendersi dalle gabbie dorate di molli carezze e disgustosi croccantini dietetici, e non intendono rinunciare. Potrei risolvere il problema,naturalmente, e in modo abbastanza indolore per i cari fuffi: sparare a tutti quanti. Altri lo fanno. Io non ci riesco,non riesco nemmeno a imporre ai loro padroni di rafforzare la segregazione e impedirgli di sgattaiolare; e qui sta tutta la mia santità e il mio eroismo. Nell’acquiescenza di una verità, fastidiosissima e dolorosa ma pura verità che si impone alla mia coscienza, rose o non rose: nella natura dei gatti non c’è la clausura divanesca, ma fare la pipì nelle rose. E rifiutare la natura dei gatti, come di qualunque altra creatura o essere, è sacrilegio e crimine che io non intendo compiere. Nella natura delle rose di santa Rita c’è la forza di resistere agli acidi urici felini? Non lo so, lo spero per me e per loro. Pensando ai gatti di via Montello mi viene in mente il sempre più frequente uso della parola “natura” e “naturale” che sento proporre per imporre dei principi di natura etica, non inerenti ai gatti, che non gliene frega a nessuno, ma all’uomo. In particolare ho notato la veemente insistenza con cui la gerarchia cattolica italiana e molti politici hanno voluto stabilire il principio della “famiglia naturale” definendo con questa qualità, che può apparire ineluttabile e vuole essere imposta come irrinunciabile, la famiglia in cui la grande maggioranza di noi ha deciso di vivere: l’unione monogamica e stabile, preferibilmente permanente, di un uomo e una donna. Secondo me dietro questa semplice, così familiare aggettivazione “naturale”, si disvela una grande rivoluzione scientifica e anche teologica. Perché sappiamo, o credevamo di sapere, che tutto ciò che concerne l’uomo e il suo agire,il suo essere e relazionarsi con se stesso e l’universo, altro non fosse che elevarsi o estraniarsi o emanciparsi dallo stato di natura. Abbiamo imparato a chiamare evoluzione della civiltà questo suo agire e pensare “altro” dalla bruta condizione di naturalezza. Da quando Lucy, quattro milioni di anni or sono, ha cessato di deambulare sui quattro arti, altro dell’uomo non è stato che un produrre strumenti “culturali” di emancipazione e evoluzione culturale del suo status naturale. L’homo sapiens è sapiens, appunto. E si è dato nel tempo religioni e principi, etiche e leggi per tenersi il più lontano possibile dal precipizio dello stato di natura. Il mito del buon selvaggio è appunto un mito molto illuminista e laicista e libertino e la fede giudaico cristiana ha sempre imposto, sin dalle origini, una barriera invalicabile tra stato dell’uomo e stato di natura. Da qui si fa nascere, tra l’altro, la storica insensibilità ecologica della nostra cultura, compresa l’indifferenza verso la sofferenza degli animali, gatti compresi. Quello che credevamo di dare per certo è che fosse un ossimoro l’accoppiamento delle parole “naturale” e “umano”,ma se confondiamo naturale con antico, o antichissimo o ancestrale, allora la famiglia, “naturale” perché la più antica, è composta dall’unione temporanea di un maschio dominante con alcune femmine in età feconda con i loro figli e altri adulti consanguinei gregari e ancora in grado di procurarsi il cibo. Ma esistono in alcune culture altre forme familiari ancora oggi, ad esempio dove le tradizioni ancestrali resistono alla modernità. Lo stesso antichissimo tabù dell’incesto è stata una faticosa conquista, e l’episodio di Noè e le sue figlie nella Genesi è lì a ricordarcelo. A proposito, quante mogli hanno avuto i patriarchi biblici? Una alla volta o tutte insieme? Quel tipo di unione familiare è naturale o solo antica, storicamente definita e limitata? Noi abbiamo scelto di vivere diversamente da come vivono ancora oggi i clan tribali delle isole di Sottovento, e la nostra idea comune di famiglia è anche diversa da quella delle tribù bibliche. Idea comune, evoluzione culturale e/o spirituale, non principio naturale. Difendere la famiglia è un dovere etico e politico irrinunciabile, ma voler imporre un principio di natura a un’idea squisitamente culturale, o religiosa, di famiglia, è quello che è: una battaglia culturale o una battaglia di religione. La natura sta con i gatti del mio cortile, non con i loro sbadati proprietari.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 11 febbraio 2007