Maurizio Maggiani: L’Italia è come l’Iran, per una legge chiede la benedizione della Chiesa
Alcuni giorni or sono, il Presidente e massimo garante della (e per la) Repubblica, Giorgio Napolitano, ha rilasciato una dichiarazione in cui chiedeva al governo del suo Paese di adoperarsi per trovare un accordo con la Chiesa cattolica italiana, in ossequio alle preoccupazioni espresse dal Pontefice, circa una legge dello Stato; si tratta, per inciso, di una legge che riguarda l’ordinamento civile, nota come legge sui Pacs, tema a noi tutti noto.
L’appello del Presidente è stato accolto dal primo ministro, Romano Prodi, il quale ha dichiarato di aver lavorato e di continuare a lavorare a un accordo con la Chiesa cattolica; ma è stato respinto dalla suddetta Chiesa per parola delle sue massime gerarchie le quali sostengono che i principi – i sacri principi, è il caso di dirlo – non sono oggetto di mediazione e di contrattazione. Ora io credo che le dichiarazioni del Presidente Napolitano, e conseguentemente del primo ministro Prodi, stabiliscano un precedente di assoluta gravità e una singolarità nella storia moderna e contemporanea degli Stati democratici occidentali.
Per spiegare il mio pensiero vi proporrò una simulazione. A qualche lettore potrebbe parere che in Italia si viva una troppo angusta vicinanza tra istituzioni e Chiesa cattolica. Non è vero; Costituzione e leggi garantiscono una distinzione formale assai precisa come altrove non sempre è così chiara. Ad esempio, da più di venti anni la religione cattolica non è più religione di Stato come stabilivano, con qualche ambiguità, i patti lateranensi.
Conoscete l’Inghilterra? Abbastanza, credo. Sapete che in Inghilterra la religione dominante, la religione anglicana, è religione di Stato e che la regina in persona ne è il capo istituzionale, così come è capo dello Stato, della Corona, come si dice? Forse sì. Sapete pure immagino, che il capo spirituale della Chiesa anglicana è l’arcivescovo di Canterbury, attualmente nella persona di Rowan Douglas Williams. L’arcivesco Williams ha in questi anni più volte manifestato pubblicamente e con energia la sua avversione alla politica estera del governo presieduto da Tony Blair, in particolare per quanto riguarda la guerra in Iraq. Ora vi chiedo:potete anche solo immaginarvi la regina Elisabetta che pubblicamente chiede al primo ministro Blair di trovare un accordo con la Chiesa anglicana, secondo le preoccupazioni del suo capo spirituale, sulla consunzione della Pace e della Guerra e sulla questione etica che la politica del governo implica? Vi immaginate il signor Blair che risponde alla regina sostenendo che tale argomento è nelle sue preoccupazioni e che si adopererà per un accordo soddisfacente? No, credo; infatti non è accaduto e neppure è immaginabile che accada.
Va da sé che la cosa è ancor meno immaginabile per altri Paesi, là dove la distinzione tra fedi e Stato è assai più precisa e rigida; Stati Uniti in primis, dove il presidente George W. Bush fa pure professione di fede – caso rarissimo in quel Paese e assai criticato dalla pubblica opinione – ma dove si guarda bene da sostenere pubblicamente la necessità di accordarsi con questa o quella Chiesa prima di emanare una legge dello Stato.
In Italia non solo lo immaginiamo, ma lo constatiamo: lo Stato deve contrattare con una Chiesa le sue leggi. La quale Chiesa ha risposto, correttamente e doverosamente, che sui principi non si contratta e non si commercia. Cosa che dovrebbe essere sacrosanta per chiunque, ma che non lo è per i massimi rappresentanti dello Stato. Oggi e non ieri; non ricordo di un rappresentante di un governo dei tempi passati che abbia pubblicamente dichiarato qualcosa del genere. Non un ministro democristiano, non un presidente democristiano, nemmeno nei momenti per loro difficilissimi delle leggi sul divorzio o sull’aborto. Neppure il cavalier Benito Musssolini, nell’ambito delle trattative per i patti lateranensi, ebbe mai a dichiarare che lo Stato fascista doveva venire a patti con la Chiesa.
Io credo che in questo Paese il problema non sia l’invadenza delle gerarchie cattoliche e dei valori che esse difendono e promuovono, ma nell’assoluta inconsistenza delle gerarchie statali e politiche, incapaci di trovare valori e principi indiscutibili se non con (e da) i legittimi rappresentanti del popolo chiamati a discuterli e a promuoverli. I quali legittimi rappresentanti, a loro volta, assumono principi e valori talmente volatili che sarebbero disposti a trattarli e mediarli con il diavolo, se il diavolo avesse voglia di mettere sul tavolo il suo pacchetto di voti.
Come altre volte è accaduto, i sondaggi ci dicono che il popolo è più avanti del legislatore sui temi etici e, nella fattispecie, è per la maggioranza in favore del riconoscimento delle coppie di fatto. Questo in un Paese qualunque significherebbe poco o niente, visto che il compito, il dovere, delle istituzioni statali, del governo e del Parlamento è di essere avanguardia di indirizzo etico, politico e sociale per il Paese. Nel nostro, invece, ci pone davanti alla singolarità di una maggioranza favorevole a una legge di tutela di una sua minoranza, avendo un governo e un presidente che le chiedono di moderare le aspettative per fare in modo di trovare un accordo con una gerarchia ecclesiastica che non ha altro potere di legiferare se non riguardo alla propria dottrina, che non è, né può essere per Costituzione, legge dello Stato.
Qualcosa del genere, che io sappia, succede solo in Iran, dove, dopo la rivoluzione komeinista, si è istaurato un doppio potere: un Presidente della Repubblica e una Guida suprema religiosa in grado di porre veto sulle leggi, non tutte, dello Stato. In Iran, sì, tutti i giorni governo e Parlamento mediano con le autorità religiose sui principi e la loro applicazione nella società.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 4 febbraio 2007