Maurizio Maggiani: Nel rito del presepe, la nostalgia di una famiglia cancellata dal tempo

Ieri ho comprato un’altra figurina del mio presepe. Ogni anno ne compro una sola, non di più; è così da quando ho iniziato a ricostituire il presepe della mia infanzia andato perduto nel tempo e nelle vicende di una vita. Naturalmente, data l’unicità, scelgo con molta cura la figurina dell’anno; questa ultima è un angelo che suona la tromba, ha grandi ali e una bellissima veste drappeggiata per dare la plastica sensazione del suo volo. È una figura in creta vestita di cartapesta dipinta nella tradizione beneventana e costa un occhio della testa; usando tutta la cura di cui sono ancora capace, lo calerò con una lenza molto sottile proprio sopra la capanna della natività. Non so ancora come, perché ancora non ho deciso quale sarà la capanna di quest’anno: il mio presepe è molto tradizionale, come deve essere, ma mi prendo la libertà di decidere ogni volta una sede e un’architettura di mia fantasia dove collocare il centro della scena. Il mio bambinello è nato nelle gole di Tota Bora, su una spiaggia di Gaza, in una stalla della Garfagnana, sulla miniatura del tavolo di cucina della casa dove sono cresciuto io, in una capanna rupestre dell’Anatolia, in una grotta del Monte Ishman, e in un sacco di altri posti. Non credo che il divin pargoletto se ne avrà a male, non di questo. Come non se la prenderà, di sicuro, per il fatto che è un po’ fuori misura e tutto sbecchettato: è l’unica figura che mi è rimasta del presepe primigenio, ed è venuto con me attraverso infiniti traslochi e non poche epoche, e come me è assai consumato e fuori dai vigenti standard. Ma perché continuo a fare il presepe? Alla mia età è quantomeno singolare che me ne faccia una passione, che ci dedichi del tempo smisurato, energie che potrei rivolgere a ben più fecondi progetti, denaro che potrei profittevolmente dedicare ad opere, vere, di fattivo bene. Questa mia fissazione per il presepe è un rito, questo lo so: i tempi, i gesti, lo spirito stesso con cui mi accingo all’opera, sono quelli di un rito. Ma non un atto di fede: non credo che la mia fede, se c’è e com’è, si compia in una rappresentazione che a un rigorista della morale cristiana apparirebbe al limite dell’idolatria. Sì, celebro a mio modo un rito e creo uno spazio di liturgia, ma per affermare cosa, per consacrare che? Credo di saperlo, ed è una faccenda assai intima. Ogni anno, nell’epoca convenuta, nel rinnovarsi di uno spazio delimitato da un’antica tradizione di sacralità, celebro il mito della famiglia, coltivo la remota epopea familiare di cui continuo a nutrirmi tuttora. Quando, se non a Natale, struggersi di nostalgia, e provare a placarla, per quel sentimento di ferma e serena certezza che è stata l’idea infantile della mia famiglia, quando nell’epoca del suo splendore componeva una perfetta immagine di sé e di come sarebbe stata per sempre la vita. Se tutto fosse restato immobile, se nulla avesse intaccato il quadro vivente che a un bambino appariva come l’universo intero. Se la vita fosse stata per sempre un presepe dove ogni cosa e ogni presenza ha il suo posto e la sua ragione, e sono un posto e una ragione immutabili. Dove niente muore, ma può solo subire danni che il mastice e un poco di pittura non possano riparare. Dove si ripeta per sempre il Natale del 1966, e la sua vigilia e il suo Santo Stefano. Tre generazioni tutte al riparo della vecchia casa, tutte indaffarate a costruire una celebrazione domestica fatta di buon cibo, di buone intenzioni, di cose ben fatte; ognuno portando del suo, ognuno arrivato in pace dal mondo, ognuno con un senso quieto e pervicace del proprio destino. Dove non si parlava di sentimenti, ma si costruivano, anche solo offrendo uno sguardo, anche solo impastando farina. Celebro tutto questo, e altro che non è così facile dire, ricostruendo tutto quello che non è più, e non sarà mai più. Perché compro una figurina ogni anno, ma ogni anno ho perduto una persona vera; perché quella casa è stata smembrata per fare posto ad altro modo di fare famiglia, perché i destini sono diventati mobili, come vacue sono state le epoche che sono venute, perché i bambini e i ragazzini di allora, divenuti fragili adulti, hanno preso a discutere di sentimenti avendo grandi difficoltà a costruirli con le loro mani. Essendo sopraggiunti tempi in cui il fare è divenuto un accessorio sociale recessivo. Pateticamente conservatore, assecondo la coazione a ripetere un gesto che lenisce un dolore e un lutto, ma non costruisce nulla se non una scena, dove io stesso non potrei trovare posto. Non certamente angelo, non pastorello o lavandaia, non ochetta sul lago di specchio, non Re Magio. E lo so, e so che non può che essere così. Sono un conservatore, non un reazionario. E nonostante la struggente nostalgia, so che vivo una mutazione, non un fallimento; una necessità, non un tradimento. So che gli umani della mia generazione, e io tra loro, abbiamo vissuto un’età di mezzo, dove le trasformazioni che abbiamo voluto, che abbiamo subito, che ci siamo imposti, hanno generato incertezze, traumi e sofferenze; so che la storia ci ha imposto di fare di tutto ciò un carico di buone cose che avremmo dovuto guadare alla sponda di là a costo della nostra stessa vita. Di là dove una nuova generazione è in viaggio per cercare la sua casa, il suo riparo, il suo Natale. Che non sarà mai più quello del 1966, che non ha visto e non saprebbe neppure riconoscere. Sarà altra cosa, tutt’altra scena, in altre case in altre famiglie in altri modi dei sentimenti, non altrimenti. Invocare contro questo il primato della tradizione e delle radici, è inutile e mostruoso, pura e cieca reazione. Tutto ciò che è possibile e umano fare è creare nuove tradizioni e coltivare nuove radici, e questo succederà là dove oggi stanno gli umani e le loro attese, non dove ricordo con indelebile memoria che stavo io e mio padre e mia nonna e la mia bisnonna. E se riteniamo necessario legiferare a favore della famiglia, l’unica cosa sensata da fare è pensare alla famiglia che si sta costituendo nel lungo day after del Natale del 1966, non a quella che può vivere ancora solo nel mio presepe.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 10 dicembre 2006