Maurizio Maggiani: Lenin, Stalin o la fine della memoria
Vladimir Il’ic Ul’janov Lenin, ricordate con il dovuto dettaglio chi è stato quest’uomo? Quanti tra gli studenti che leggeranno questo giornale, quanti tra i loro insegnanti, quanti tra i miei vecchi compagni di scuola, quante tra le persone che faranno domani la spesa dal besagnino del mio quartiere, lui stesso e il tabacchino di fronte, quanti tra i consiglieri comunali di questa città, quanti tra i nuovi manager dell’azienda dei trasporti? Il suo nome per esteso, per esteso la sua vita? Visto che quest’uomo meno di un secolo fa ha cambiato il mondo, lo ha sconvolto, per la precisione, rivoluzionando il suo Paese,e quelloche è oggi il suo Paese e il mondo intero è ciò che resta di quello che le forze da lui generate e dirette hanno sconvolto. Perché il crollo delle Torri gemelle non è bastato – e perlomeno ci auguriamo ardentemente che non lo sia stato a uno squassamento pari a quello generato dalla rivoluzione bolscevica e dall’instaurazione del socialismo reale nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Cccp in alfabeto cirillico, Urss qui da noi. Chi ha qualche interesse a capire, a sapere, investa una manciata di euretti per una visita alla mostra Russia & Urss di Palazzo Ducale, a Genova. E invece di seguire pedissequamente il complicato itinerario, vada diritto al grande quadro dove troverà dipinto un signore seduto, intento a scrivere qualcosa. Quel signore è Vladimir Il’ic Ul’janov Lenin, ritratto nello Smol’nj, il quartiere generale del “suo” partito bolscevico da cui ordinerà il colpo di Stato rivoluzionario.
Osservate. Quell’uomo non è a casa sua, e se quella è casa sua è un riparo assai precario: è seduto su una poltroncina da cui non è stato tolto nemmeno il panno con cui si sigillavano gli antichi salotti che venivano chiusi per la stagione. Nella fretta ha scelto il posto sbagliato: si fa ombra con la testa e per riuscire a vedere quello che scrive deve piegare il collo e il quaderno verso la luce e scrivere di sghimbescio. È solo, in un luogo provvisorio, come un viaggiatore in una sala d’attesa, un ladro in una casa abbandonata,un rivoluzionario nel palazzo che ha appena conquistato. La sua solitudine, la sua precarietà, sono la traduzione grafica della sua enorme, inumana responsabilità. Qualunque cosa stesse scrivendo in quel momento, tutto ciò che ne è derivato inseguito,direttamente e indirettamente,da lui voluto e non voluto, capito e non capito, lui invita lui già morto,pesa su quella penna, su quella mano, nell’ombra proiettata dal suo viso sulle terre e sui popoli delle Russie, sul globo terracqueo. E tutto si può dire di quell’uomo tranne che di lì in poi abbia potuto conoscere la solitudine, neppure volendola, neppure come momentaneo sollievo. Alla sua morte, per decenni dopo la sua morte, centinaia di milioni di uomini e donne lo hanno pianto e invocato. Altrettanti lo hanno odiato e maledetto, ma è vissuto, e continuato a vivere nel ricordo, avendo con sé un immenso popolo fidente e persino amorevole. Delle fidenti speranze di un popolo grande come la Terra – proletari di tutto il mondo – egli si è assunto la responsabilità di fare strumento per la costruzione di un sistema, quello che a lui pareva il sistema di giustizia unico possibile.
Fate ancora qualche passo e considerate un grande quadro pieno di luce e di ottimismo, di gente e di colore, di movimento e allegria. Raffigura Iosif Stalin in visita al Parco Gorkij. Conoscete con dovuto dettaglio quell’uomo e la sua vita? Forse sì, quasi certamente assai più del precedente. Quel quadro è stato dipinto per contraddire e negare ciò che quell’uomo fu. Se è mai possibile un sistema scientifico per costruire una solitudine nel grigiore, nella depressione, nella disperazione, Iosif Stalin l’ha conosciuto. Certamente padroneggiava alla perfezione l’applicazione più efficace e semplice: l’eliminazione morale, politica e fisica di tutti quelli che minacciavano il suo destino di solitudine; e aveva la certezza che a incarnare la minaccia fossero diversi milioni di uomini, compresi persino quelli raffigurati tra i festanti del dipinto. Quel destino lo ha edificato come sistema, buono per sé, per il suo Paese, per il suo impero, per le idee che ha preteso incarnare. È stato un sistema totale, un modo di edificazione universale. A sostenere quel sistema dopo Vladimir Il’ic Ul’janov Lenin e Iosif Stalin sono venuti altri uomini, ma altro non hanno potuto essere che varianti dell’uno o dell’altro, perché il sistema era perfetto, intangibile, autosufficiente e autorigenerante. E come tutti i sistemi perfetti si è dissolto nel nulla in un attimo, annientato dall’illusione di se stesso. Talmente definitiva la sua dissoluzione che oggi sono a chiedere, senza retorica, chi se ne ricorda, se portiamo memoria adeguata di chi e di ciò che ha incarnato la più grande speranza e la più cocente delusione degli umani del ventesimo secolo. Niente di meno.
Non credo che senza la tragica vastità dello sconvolgimento bolscevico il mondo sarebbe oggi migliore, né che potesse dolersi dimeno vittime e meno dolore. Senza contare sul resto, oggi probabilmente vivremmo in una realtà fatta di New York sotto governatorato nazista e Los Angeles sotto dominio giapponese,come ragionevolmente fantasticava Philip Dick. Aggiungerei che le mille limousine a vetri offuscati che sfrecciano oggi per Mosca non sono di nessunissima consolazione al fatto che un qualunque cittadino russo può sperare di vivere dieci anni di meno di vent’anni fa; così dubito che un qualunque cittadino russo dedito a trovarsi qualcosa o qualcuno per non morire troppo presto, gioisca di intimo orgoglio per la conquistata libertà di stampa:libertà che continua a costare la vita di non pochi giornalisti.
Cionondimeno quando Vladimir Il’icUl’janov Lenin dà il suo voto contrario al permesso di espatriare al poeta Aleksandr Blok per curarsi, perché potrebbe “per il suo temperamento poetico” parlare e scrivere contro la rivoluzione bolscevica, quell’uomo si fa padre di un inganno che riguarda anche me,e con me tutti i bisognosi di giustizia del mio tempo,del tempo passato e del tempo che ancora verrà.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 12 novembre 2006