Maurizio Maggiani: L’Afghanistan? Diciamolo chiaro: è una guerra
So bene quanto possa essere scioccante il fatto, ma la notizia veramente tragica che ci viene dall’Afghanistan non è l’attentato alla pattuglia italiana, ma l’automobile kamikaze che è esplosa nel cuore di Kabul. Intanto perché ci sono stati 16 morti mentre i nostri soldati se la sono cavata assai meglio, e poi perché d’ora in poi sarà impossibile per il giornalista più volenteroso e il politico più ottimista sostenere che almeno nella capitale, almeno davanti agli alberghi dei giornalisti e alle ambasciate dei politici, le cose vanno meglio.
Le cose in Afghanistan e persino nella sua superpresidiata capitale vanno sempre peggio; e se noi lamentiamo 4 feriti, i nostri alleati canadesi lamentano 30 morti. E la gente, quella gente che noi amiamo di purissimo e disinteressato amore al punto di sacrificarle i nostri denari e i nostri uomini, come se la sta cavando?
Pare che continui a morire, pare che continui a soffrire la fame, la malattia e ogni altra orribile cosa di cui noi ci siamo incaricati di sollevarla. Dopo averla ben bene spianata con i bombardamenti dei leggendari, trionfali primi mesi di una guerra che doveva spazzare via gli orridi talebani, quelli che oggi stanno attaccando con inaspettato successo in tutto il meridione del paese, e che ieri provvedevano a riconquistare villaggio dopo villaggio, il potere sulle persone e sulle cose da cui qualche furbone ci aveva assicurato di averli per sempre allontanati.
Oggi l’Afghanistan è un inferno, un casino, un imbroglio. È tutte queste schifezze in modo più evidente rispetto agli ultimi duecento anni in virtù della straordinaria capacità dell’oggi di compiere errori mortali: al riguardo Kipling ha avuto più intelligenza politica del Politburo sovietico e del Dipartimento di Stato messi assieme.
È giunto dunque il momento, cari compatrioti, di alzare i tacchi e venircene via da quell’inferno? Preferisco saper rispondere alla domanda che viene prima: quali sono le ragioni per essere andati e dover restare?
Sappiamo che c’è stata una guerra degli Usa contro il regime dei talebani e le forze terroristiche in quel paese e dal quel regime ospitate. Sappiamo che c’è stata una guerra per liberare il popolo afgano da quelle schiavitù. Senza dare giudizi su quella guerra, dobbiamo soltanto accettare il fatto che non è finita; non lo è perché non sono finiti i talebani, non sono finiti i terroristi e nemmeno le schiavitù. Le forze della Nato sono lì per continuare quella guerra, le forze dell’Onu per renderne accettabili e stabili le sue conseguenze ; attualmente la missione Onu è essenzialmente pro forma, per l’ovvia ragione che gli obiettivi prioritari sono ancora di natura squisitamente bellica. Questa è la dura realtà; e la realtà, almeno nelle situazioni estreme, ha ancora un certo maggior peso rispetto agli speranzosi comunicati ufficiali.
Riguardo alla realtà, se diciamo che i nostri uomini sono lì per difendere la neonata democrazia diciamo una bugia per omissione. Quello che dovremmo difendere è la spartizione del potere tra clan e tribù che hanno trovato il modo di mettersi momentaneamente d’accordo su come mandare a votare i loro uomini e qualcuna delle loro donne. Ma se evitiamo di chiamarlo democrazia per conservare almeno un po’ di dignità in quella parola potrebbe anche essere un risultato, o un esito, accettabile; sempre che riuscissimo a consolidarlo, e non ci riusciamo.
Possiamo allora realmente dire che siamo lì per ragioni umanitarie? Una signora, avvolta in burka, ha rilasciato una intervista illuminante alla Bbc. Dice la signora: voi occidentali siete ossessionati dal mio burka, ma io ho due altre cose che mi ossessionano prima di occuparmi del mio vestito; trovare un ospedale dove far curare mio marito e una scuola dove far studiare mio figlio, e non trovo né l’uno né l’altro. Questa è certamente una buona ragione per essere lì: per costruire scuole e ospedali e fabbriche e ampliare coltivi. Ci sono molti privati cittadini e molte associazioni di tutto il mondo, come l’italiana Emergency, che si dedicano a questo scopo, raggiungendo risultati lusinghieri senza particolari dispiegamenti di forze militari. Il loro è propriamente un intervento umanitario e riscuote ampi successi perché è inequivoco: fa ciò che dice di fare e lo fa bene. Ma tutti i loro eroici sforzi non basteranno a creare tutto ciò che serve a un paese. E soprattutto non basterà neppure tutto ciò che potrebbero fare nazioni e istituzioni mondiali, qualora si impegnassero con tutte le energie in questa umanitaria priorità.
Si può aiutare un paese a costruire se stesso solo se quel paese ha la forza e la volontà di impegnarcisi con tutte le proprie forze. Oggi l’Afghanistan non è neppure un paese: è una consociazione e una dissociazione di feudi. I signori di quei feudi, come i talebani, non hanno in programma scuole e ospedali, benessere e democrazia, ma il potere sul traffico di oppio, il potere sulle anime dei sudditi. In queste condizioni, tutto ciò che le istituzioni internazionali potrebbero fare è destinato ad essere disfatto, quel pochissimo che stanno facendo va presidiato con un dispiegamento di energie abnorme. Mentre la gente ci chiede ciò che non siamo in grado di darle, e l’Onu ci chiede ciò che non può fare, la Nato chiede cose assai precise che potremmo darle: ci chiede di sostenere il contrattacco nel sud del paese con uomini e mezzi. Ci chiede di combattere. È una richiesta ragionevole, se guardiamo all’Afghanistan con gli occhi della Nato e degli Usa che ne sono soci di maggioranza. Potrebbe essere ragionevole in assoluto. Basta accettare con sincerità il fatto che la questione afgana è questione di guerra, che è una guerra giusto da combattere contro un avversario odioso e repellente, che non ci sono altri che noi a poterla combattere, visto che l’esercito afgano è un fantasma vacuo al pari del suo presidente.
Se è così, non possiamo che mettere generosamente i nostri soldati a disposizione di una necessaria vittoria militare che avrà inevitabilmente il suo prezzo di sangue. Così come è cominciata la vicenda afgana, non può che finire in questo modo: è una guerra che non prevede armistizi.
Possiamo invece dire che non siamo stati noi ad operare perché le cose laggiù prendessero questa piega, che chi a suo tempo i talebani li ha nutriti e armati in nome dei superiori interessi, adesso se li vada a riprendere. Ma nel dirlo firmiamo l’atto del nostro ritiro. Anche questa è realtà e ragionevolezza, cambia solo il punto di vista. C’è solo da scegliere, c’è solo da assumerci le nostre responsabilità.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 10 settembre 2006