Maurizio Maggiani: Sotto il Ponte Magnifico ritrovo la vita
Questa è una storia romantica; una piccolissima storia, ma molto romantica. L’altra domenica mi sono messo per strada alle cinque del mattino per vedere sorgere l’alba sotto il ponte. Non un ponte tanto per dire, ma il ponte magnifico, il viadotto sul Polcevera. C’è qualcosa veramente di magnifico, di terribilmente magnifico, e di sconcertante spettacolarità, e di angosciante grandezza, e di poetica eleganza in quell’opera dell’Italia che avanza, l’Italia che fu, un Paese che per un piccolo tratto della sua storia è stato contemporaneo all’epoca che lo ha compreso.
Quel ponte è molte cose: è un’ambizione ingegneristica, un progetto politico, una ferita chirurgica, ma anche una sutura, un sogno ad occhi aperti, una disgrazia capitata sopra la propria testa, un mondo da farsi, il disegno di un puzzle mancante dell’ultimo pezzo. Orgoglio e mestizia. È questo e chissà cos’altro. È vita, comunque, vita che si è incistata sopra, sotto, ai bordi, negli interstizi. Vita che stenta e vita che prolifica; marginalità e centralità. La vita che è bella e che è brutta, la vita degli uomini che se ne sono appropriati, nel corso del tempo fatto loro.
C’è sporcizia sotto il Ponte Magnifico, e c’è ordine; c’è degrado sotto il Magnifico Ponte e c’è lavoro. C’è in tutto una qualche bellezza, basta mettersi in cammino con gli occhi che la sanno trovare. È comunque la bellezza che appartiene alle cose che si accordano in ospitalità con la vita. Fosse anche solo, la vita, una macchia di malvarosa che prospera nella fessura di un trave; fossero due donne che salgono una rampa di inverosimile ingegneria per tornare a case di inverosimile urbanistica, case piantate in un paesaggio che sarebbe solo orrido se quelle donne non chiacchierassero tra loro ridendo di qualcosa che deve pur avere a che fare con la vita, una vita per niente facile, ma per niente infame.
E se il Ponte Magnifico ha violato una città, la città non ne è per questo morta; Rivarolo è città, e Certosa è città, e via Fillak è città. Città compiuta, città consumata, città che mette i gerani alle finestre, anche alle finestre sotto il Ponte. Città che si sveglia alle otto di domenica mattina e vive come in ogni altra ora del suo tempo. E non è vita infame; e la focaccia al circolo è buona, forse meglio di quella del mio baretto, e la ragazza che salta sul vespino per andarsene da qualche parte oltre la terribile linea d’ombra del Ponte è vita di sicuro. Bellezza di città. Di una città non facile, di un’epoca che è un estenuante day after. La città del dopo. Dopo il Ponte e il suo tempo, il tempo dell’Italia che avanza.
Già, l’Italia che avanza sui viadotti, che fonda il suo futuro sulle putrelle d’acciaio. Così alle dieci del mattino ero davanti ai cancelli di Cornigliano, davanti alla Torre Martin, al cospetto del Grande Tempio dell’epoca dell’acciaio. I resti del Tempio. Per fortuna sono ancora lì, integri nella loro forma, svuotati nella sostanza. Immagino che per le decine e decine di migliaia di uomini e donne che hanno vissuto la loro vita con l’orgoglio di chi è stato chiamato a costruire un intero Paese che si è andato sfaldando ancor prima di realizzarsi, per tutti quelli che si sono rotti la schiena e i polmoni, le braccia e il cuore in quelle immense fornaci, per tutti i traditi, i feriti, i disillusi, la tentazione sia di cancellare, di dimenticare, di radere al suolo tutto quanto nella propria mente, tanto per cominciare.
Ma non è possibile e non è giusto; non lo è in nome della vita, della vita loro e dei loro figli e di tutti quelli che verranno. Nessuno può fondare una speranza, un’attesa, nella cancellazione, nell’alienazione. E Cornigliano è Palazzo Ducale, San Lorenzo, la Via Aurea; è la stessa storia, è gli stessi fallimenti, le stesse glorie, la stessa bellezza. È la stessa città. È parte dello stesso tormento, è parte della stessa materia.
Non è stato un caso che davanti ai cancelli, ad aspettare che aprissero il Tempio, si è formato un capannello che solo a un distratto poteva sembrare inverosimile. Il sottoscritto, un professore di ingegneria genovese, un pensionato metallurgico torinese, due ragazzi modenesi. Ognuno era lì per vedere qualcosa che aveva in mente, un’acciaieria per ciascuno. La storia, la stranezza, la memoria, il mito, lo studio. E nel modo che aveva ognuno di adocchiare gli impianti, per nessuno era cosa morta, per nessuno era ferro vecchio gettato sui margini di una spiaggia da uno scherzo del tempo.
Cosa ci fanno due ragazzi, capello rap, a vedere un altoforno a trecento chilometri da casa, senza abbastanza soldi per un posteggio a pagamento? Cosa ci fa un distinto pensionato, faccia di infinita dolcezza, ex operaio delle fucine torinesi, cosa ci fa un professore, cosa ci faccio io? Cerchiamo bellezza cercando ragioni, cerchiamo domande cercando storia, cerchiamo identità cercando diversità. Cerchiamo di fare domenica andando in gita in città, in una delle più affascinanti città storiche d’Italia.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 25 giugno 2006