Maurizio Maggiani: Made in Pistoia il mio pregiudizio contro gli ambulanti
Vi racconto una storia esemplare di pregiudizio e di razzismo, razzismo culturale. È una storia personale, il razzista sono io e l’oggetto del pregiudizio un pacchetto di fazzoletti di carta. Dunque, i fazzoletti. Intorno alla metà del passato decennio si è instaurato tra me e i venditori ambulanti di origine maghrebina che cominciavano allora a battere le strade d’Italia e i citofoni dei più remoti paesi d’Appennino, un fraterno e solidale regime di relazioni. Non mendicanti, ma commercianti, avevano pur sempre merce che potevo ritenere appetibile. Grande consumatore di calze di spugna per uso sportivo e di mutande in genere, sono diventato buon cliente. La merce non era delle migliori, ma il prezzo adeguato, e maggior consumo e minore spesa alla fine pareggiavano i conti. Con il nuovo millennio è successo che il numero dei venditori si è a tal punto accresciuto che la loro offerta è diventata abnorme rispetto alla mia domanda: non potevo comprare tutte quelle calze e tutte quelle mutande che mi offrivano, non avrei avuto modo di consumarle nemmeno se mi fossi cambiato cinque volte al giorno. Sono allora passato a grande cliente di altra categoria merceologica, sempre in monopolio ai venditori ambulanti: accendini usa e getta. Gran fumatore di sigari, ho necessità di appicciarli con grandi quantità di fiamma. I miei rapporti commerciali interetnici non hanno risentito molto di questa svolta commerciale fin quando i venditori di accendini non sono diventati molti di più di tutti i sigari che, anche con la più fervida volontà autodistruttiva, sarei riuscito a accendere e fumare. E siamo così arrivati all’ultima spiaggia: ai fazzoletti di carta. Per le dimensioni del mio naso e la costanza della mia rinite sono un divoratore di confezioni di fazzoletti e probabilmente l’offerta ambulante non avrebbe mai potuto superare la mia inesausta domanda; anzi, la disponibilità per strada e in qualsivoglia altro spazio pubblico e privato l’avrei gradita come un servizio alla mia persona. Senonché… Senonché si dà il caso che la merce offerta si è dimostrata al di sotto del minimo standard di qualità richiesto. I fazzoletti ambulanti appartengono al 99% a un monopolio distributivo di un’unica marca e si rivelano all’uso tremendamente inefficaci. Insomma, data la qualità scadente della cellulosa, si squagliano e, voi mi capite, è come soffiarsi il naso direttamente sulle mani. Le mie relazioni con gli ambulanti hanno subìto un tracollo. Il solo gesto di vedermi allungare una confezione da dieci di quella roba, e sentirmi chiedere dei soldi, mi fa saltare i nervi. Sono convintamente a favore del commercio equo e solidale e della dignità del lavoro, e non c’è dignità né equità né vera solidarietà nell’incoraggiare il commercio di robaccia: è solo elemosina mascherata. E le maschere non mi piacciono. Così che i miei rapporti con i venditori hanno avuto un tracollo. Ed è nato e cresciuto un pregiudizio. La marca di quei fazzoletti richiama inequivocabilmente il nome di una importante e antica e bella città algerina. Così che ho maturato l’idea che esistesse una potente industria maghrebina dedita alla lavorazione della cellulosa ad uso domestico incapace di produrre decentemente una roba semplice semplice come i fazzoletti di carta. E se quelli non sono capaci neppure di fare fazzoletti, che si potrà mai sperare per lo sviluppo africano? Il pregiudizio si è aggravato quando è stato aperto un discount proprio sotto casa, e assieme ai fazzoletti, sui banchi è anche apparsa la carta igienica della stessa marca. E non essendoci che quella e avendone bisogno ne ho comprato una confezione. E ho scoperto che era tale e quale i fazzoletti, solo ancora più fragile. Non so se mi spiego. Anzi, no, credo di spiegarmi benissimo. E quando sulla propria pelle — nella parte più intima della propria pelle — scopriamo che non c’è modo di fidarsi di un’industria, di un Paese, di una cultura, allora diventiamo facile preda del più bieco dei pregiudizi. Con disastrose conseguenze etiche, culturali, politiche. Poi l’altra sera è successo questo. È successo che a casa di un’amica ho chiesto un fazzoletto e me ne è stato offerto un pacchetto di quella famigerata marca. E ho dovuto adattarmi, mettendone assieme due o tre e provandomi a non inzaccherarmi. E gingillandomi il pacchetto tra le mani mi è cascato l’occhio su una scritta: made in Italy. Fabbricato in Italia da un’azienda avente sede in Pistoia. Che, assieme alla confinante Lucchesia, è il regno delle cartiere, plurisecolari industrie della carta di ogni genere per ogni uso. No comment. Avrei dovuto anni orsono fare il semplice, banale e giusto atto di vedere dove facevano gli orrendi fazzoletti. Un gesto che, chissà perché, non ho fatto. Sembrava così evidente la loro origine, come mi sembra oggi così inverosimile che si facciano in Italia. Pregiudizio. Mea culpa. Ma tutto questo qualcosa vorrà pur dirlo. Circa questo Paese, circa quello che fa, circa quello che è. Sono andato a vedere dove si fabbricano i fazzoletti e la carta igienica che uso normalmente, i miei preferiti, per così dire. Sono made in UE, fabbricati in Europa, ci sta scritto. Da un’industria con nome straniero avente una sede a Torino. Mi è stato di gran conforto sapere che in Europa si facciano cose di cui ci si può fidare, che, grazie all’Europa, soffiarmi con fiducia il naso non è un problema.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 22 gennaio 2006