Maurizio Maggiani: Katrina. Lo stile di vita che lascia i neri nel fango
Quando il presidente degli Stati Uniti G.W. Bush si è rifiutato di sottoscrivere gli accordi di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas serra, lo ha fatto in nome della salvaguardia dello stile di vita americano. Quando ha trasformato il sistema di protezione civile federale in agenzia di protezione interna antiterrorismo lo ha fatto in nome della guerra al terrorismo, in difesa del sistema di vita americano e dei suoi valori. Queste sono le parole che ha usato lui, le più pregnanti che ritiene di avere a disposizione a sostegno delle propria politica: difendere lo stile di vita americano. A qualunque costo, compreso quello di rinunciare a salvare il globo terracqueo che un mutamento climatico che si prefigura micidiale per il genere umano, compreso quello di privare la propria popolazione di un sistema di sicurezza e prevenzione delle catastrofi naturali, se ciò che viene richiesto al popolo americano è la rinuncia al suo stile di vita. Dopodiché quello che sembra essere la Natura si incarica di disvelare la scandalosa contraddizione che alligna nelle parole del presidente, contraddizione che pare sia sfuggita al suo popolo, che per difendere efficacemente il proprio stile di vita lo ha generosamente votato e rieletto.
Visto che anche gli Usa sono compresi nel globo terracqueo e i suoi abitanti fanno parte del genere umano, vale per loro quello che vale per tutti gli altri Paesi e popoli, così oggi una fotografia di New Orleans e del Mississippi può essere scambiata per una fotografia di qualche tempo fa di una delle città per noi senza nome del Bangladesh. Il fango è dello stesso colore, l’acqua della stessa consistenza, i morti annegati dello stesso enfiore, i profughi della stessa disperazione, i saccheggi della stessa crudeltà. Anzi, più crudeli e selvaggi questi ultimi, perché New Orleans ha per gli sciacalli un bottino infinitamente più grasso della miserevole Dacca, del poverissimo Bangladesh. O perlomeno questa è la nostra prima impressione confrontando i grattacieli della mitica itale del jazz con le baraccopoli della capitale di uno dei Paesi più poveri del mondo; ma gli uffici federali della previdenza sociale ci dicono che il 40% della popolazione di New Orleans vive sotto il livello di povertà, una percentuale in linea con qualsiasi Paese del Terzo mondo, Bangladesh compreso. Infatti le immagini delle baracche sommerse dal Mississippi sono perfettamente sovrapponibili a quelle sommerse dalle acque del Gange.
E, personalmente, il dolore e lo sconforto che provo al cospetto dei bambini che stanno morendo di sete sopra i tetti di lamiera americana è lo stesso che sento per i bambini morti di dissenteria nel fango del Brahmaputra.Parlo del mio dolore personale perché non sono così certo che i lettori e, tantomeno, i guardatori di telegiornali abbiano chiara e presente l’esistenza del Bangladesh e delle sue spaventose inondazioni, mentre resterà indelebile a lungo nella loro retina e nella loro coscienza ciò che è stato e ha portato con sé l’uragano Katrina.
Il quale uragano si è incaricato di dimostrare, con una crudeltà che vogliamo attribuire alla natura cieca e selvaggia, che ciò per cui il presidente degli Usa è disposto a qualsivoglia deroga dalla ragionevolezza, lo stile di vita del suo popolo, non è propriamente e semplicemente quello che affascina nella colta nonchalance spassosamente democratica di Woody Allen né quello austeramente conservatore che ci fa invidiare un personaggio di Clint Eastwood. Sempre per riferirci alle immagini, perché l’America in fondo per noi di qui è fatta di questo, di immagini. Con l’aggiunta periodica di qualche po’ di ideologia.
Lo stile di vita americano come lo vediamo in questi giorni, e come lo avremmo potuto vedere in altre occasioni, è un film di serie B, o C, di quelli che non ci mettono piede a Venezia o a Cannes, di quelli che andiamo a vedere, a noi che piace il genere, nei cinemazzi multisala. È un romanzo di Stephen King, di Tim Willocks, o anche soltanto di Alan D. Altieri, che aveva previsto tutto questo in “città oscura”.
Ne ho visto decine di film di cui nemmeno ricordo il titolo che parlano di New Orleans di oggi, ho letto decine di romanzi comprati in edicola che mi hanno già raccontato tutto questo. Perché la vita, non i discorsi presidenziali, non i fondi degli opinionisti, può essere nei suoi momenti più duri e drammatici, disgraziatamente, non alta arte e cultura, ma orrenda e crudele, come uno di quei filmacci, come uno di quei romanzacci, scritti o diretti da gente che evidentemente le scarpe nel fango della vita ce le ha messe.
È bene sapere – è bene saperlo per volere più bene al popolo americano, per essere salvi dall’antiamericanismo – che la gran parte della gente che è rimasta a New Orleans, nonostante l’invito delle autorità a sfollare, perché non possedeva un’automobile e non aveva i soldi per un biglietto del treno e dell’aereo: visto che l’uragano si è scatenato alla fine del mese e metà della popolazione dello Stato vive con un reddito che, in quei giorni pre stipendio o assegno sociale, le consente sì e no di comprare il latte per i figli. E lo stile di vita americano non comprende un biglietto gratuito per sfollare da un’alluvione.
È bene sapere che tra gli sciacalli ci sono sì delinquenti feroci, ma c’è anche gente che ha sfondato le vetrine nei negozi per prendere dell’acqua e del cibo che nessuna autorità competente ha avuto modo di recapitare loro. Prima dell’acqua per i bambini disidratati è arrivato l’esercito per mettere fine ai saccheggi. È bene sapere che nello Stato più povero degli Usa, nelle paludi del delta, negli sloom delle periferie, ci sono famiglie che non sentono la radio, che non guardano la televisione, che se hanno sentito dell’arrivo dell’uragano lo hanno percepito come una diceria lontana, come una delle variegate forme con cui si manifesta la loro atavica, immutabile miseria.
Nessuno di loro ha mai votato, nessuno ha mai chiesto loro di prendersi la briga di ritirare un certificato elettorale, non quando erano schiavi delle piantagioni, non ora che sono cittadini della più grande democrazia del mondo. È bene sapere che la gran parte del ceto medio, che invece a votare c’è andato e ha votato per i valori intangibili dello stile di vita americano, da oggi sarà ridotta in povertà, perché quello stile di vita non comprende una forma di risarcimento o di previdenza o di assicurazione tale per cui potranno risalire la china del fango che li ha sommersi.
Per tutto questo e per quanto ancora Katrina ha voluto dire loro, cos’altro possiamo provare che non sia grande pena, fraterna solidarietà, generosa amicizia con il popolo del Mississippi, con i cittadini di New Orleans, con le genti del Golfo del Messico? Non saremo noi di qui a dovergli spiegare quanto poco basti dell’inferno che stiamo edificando sopra le rovine di Gea a renderli miserabili profughi indistinguibili tra le masse dei profughi del mondo.
Tratto da “Secolo XIX”, 4 settembre 2005