“Maurizio Maggiani: Io ricco, in bilico fra una disgrazia e un “problema”
A proposito di poveri e di ricchi, spero di poter fare cosa gradita ai lettori se oggi gli sbatto davanti il mio portafoglio e faccio davanti ai loro occhi i conti che io mi sono fatto questo mese. Può essere istruttivo per tutti, immagino, come lo è stato per me. Per me che ieri mi sono trovato povero. Lo dico sul serio e senza vergogna: povero, ovvero in difficoltà economiche. Io che ho pensato fino al mese scorso di essere ricco. Ricco in quel modo che mi è da un ragguardevole lasso di tempo familiare: ho tutto quello di cui ho bisogno, l’essenziale per vivere e lavorare, e in più posso permettermi cinema e teatro, gite, libri e sigari toscani, un’assicurazione contro gli infortuni, un fondo pensione integrativo, l’affitto di una casa che mi piace e persino una signora per le pulizie un dì alla settimana; ultimo ma non ultimo, un po’ di extra per i regali al mio nipotino Richi. Questo per me è ricchezza, questo è, come si diceva una volta, stare bene.
Essendo imprenditore di me stesso il mio reddito è fluttuante, legato a quanto lavoro, a quanto me ne offrono e a quanto me lo pagano. Come in tutte le imprese anche nella mia – che ha un solo dipendente, me stesso, e un solo prodotto, la scrittura – ci sono anni buoni e anno grami; e c’è la crisi, naturalmente la crisi. Purtuttavia quest’anno non è andata male; diciamo che fino ad oggi ho potuto farmi uno stipendio mensile intorno ai 2700 euro. Che fanno di me, secondo i miei parametri, e vivendo da solo, un uomo ricco. Naturalmente se confronto le mie entrate con i profitti derivanti dai marchesati e dalle baronie in cui si è trasformato quello che nella mia giovinezza si chiamava “impegno politico nelle istituzioni”, o con quelli dei consulenti di baroni e marchesi, o dei manager pubblici e privati, devo ammettere che la parola “ricco” suona un po’ troppo forte, ma è così che mi sento. Che mi sentivo.
Perché poi è capitata una disgrazia, una disgrazia in famiglia. Sono incappato molte volte, nella mia infanzia, in questa parola, brevemente sussurrata, accompagnata da cenni di sgomento e cauti sguardi di commiserazione; eh, purtroppo gli è capitata una disgrazia in famiglia. Nel solo tono della voce era compreso il concetto dell’irreparabilità, e io immaginavo cose tristissime e indefinitivamente allarmanti. La lettura scolastica dei Malavoglia mi ha dato le immagini che mi mancavano. Poi, con il passare del tempo e con l’epoca delle conquiste sociali, l’angosciante parola si è dispersa, sostituita da una più ragionevole e assai meno allarmante: problema, “hanno un problema in famiglia”, un passo avanti enorme nel modo di affrontare la vita e nei mezzi per farlo. Il problema, contrariamente alla disgrazia, contiene in sé la possibilità di una soluzione; pensateci.
Oggi invece so di vivere una disgrazia in famiglia; non più un problema da affrontare con ottimismo e risolvere con mezzi ragionevolmente disponibili, ma di nuovo una disgrazia nello stile degli anni Cinquanta.
Anche se i suoi membri vivono in città diverse, in case diverse, esiste una famiglia Maggiani che nel momento del bisogno riunisce le forze e si dà una mano. Sempre. Ora c’è bisogno di dare una mano. Ci sono padre e madre che si sono ammalati, assieme, anche se di malattie diverse, come capita spesso tra i coniugi che hanno diviso tutto della loro vita. Il loro stato rende necessaria una continua assistenza, un’assidua protezione per un tempo indefinito, lungo quanto sarà lunga la loro vita.
Io e mia sorella abbiamo deciso di evitare il ricorso alle strutture sanitarie. Le strutture pubbliche sanitarie e quelle socio-assistenziali della comunità, quelle che negli anni Settanta e Ottanta hanno trasformato le disgrazie in problemi, non sono più in grado di fornire servizi adeguati. Abbiamo conosciuto un sacco di persone disponibili e preparate, addirittura amorevoli, abbiamo scoperto servizi all’avanguardia, ma ogni volta ci siamo imbattuti in un dato di fatto tragicamente dirimente: non c’è personale, non ci sono risorse perché questi servizi possano soddisfare le richieste, le nostre come le altrui. Per accedere a un centro diurno di sollievo, di cui si parla ottimamente, non solo esiste una graduatoria di accesso, ma anche una lista di attesa per ricevere la visita preliminare dell’assistente sociale.
A casa comunque staranno meglio che altrove, lo sappiamo, e faremo tutto il necessario perché sia così. Che significa assumere due badanti, una fissa e una a ore. Mio padre ha una buona pensione, come dice lui con orgoglio, un appannaggio di 1100 euro per 13 mensilità. Mia sorella, dopo 31 anni di impiego come segretaria in uno degli studi professionali più in vista della città, ha uno stipendio di 1150 euro e vive sola con suo figlio di sette anni, il mio ineffabile nipotino Richi, il cui padre, resosi irreperibile l’anno scorso, non ritiene di sentirsi in dovere di assisterlo in alcun modo. Se dunque la famiglia mette assieme le sue risorse diventa una roba da nababbi: 4950 euro per cinque persone e tre case, di cui una sola in affitto.
Bene, vediamo cosa è successo questo mese. La pensione di mio padre è stata destinata al mantenimento dei miei genitori, appena sufficiente per le loro correnti necessità alimentari e sanitarie, per i numerosi spostamenti in taxi per le visite specialistiche, in una città, La Spezia, con i taxi più cari d’Italia e dunque del mondo – per le bollette e in particolare per quella statosferica del telefono. Data la situazione il telefono è visto dai miei genitori alla stregua di un farmaco. Lo stipendio di mia sorella è poi appena sufficiente al mantenimento suo e di suo figlio, ambedue soddisfatti di un minimo decoro che vale appunto il suo stipendio.
E adesso c’è il mio lauto stipendio, così utilizzato. Richi, finite le scuole e il doposcuola del parroco, ha avuto bisogno di una baby sitter per 500 euro. La badanti sono costate 1560 euro. La risonanza magnetica per me medesimo – fatta in un centro privato, visto che la lista d’attesa nella pubblica struttura è di quelle che muori prima due volte – 360 euro. Se non sbaglio, le spese della disgrazia ammontano al mese di luglio – ancora orrendamente in corso – 2150 euro. Mi sono avanzati 160 euro per la vita normale, che comprende un affitto di 670 euro. Un mese in debito, un mese da povero in canna. Può capitare, ma il fatto è che l trend durerà a lungo, e io spero il più a lungo possibile, visto che si tratta della vita dei miei genitori. E non è escluso che ci saranno altre spese eccezionali destinate a una cronicità di lunga durata.
Lavorerò di più, cercherò di vendere milioni e milioni di miei libri – e questa la vedo un po’ complicata, -, vedremo se potremo vendere la nuda proprietà della casa dei miei genitori, utilizzeremo i risparmi che ho accantonato in previsione della mia badante. In qualche modo ce la caveremo, non ho il minimo dubbio. Ma una cosa oggi ce l’ho ben chiara in testa: nessuno è al riparo dalla disgrazia, nessuno è tutelato, nemmeno Maurizio Maggiani che aveva preso l’immorale abitudine di non guardare il prezzo della frutta prima di ficcarla nel sacchetto. L’epoca dei problemi che sono lì perché la comunità se ne faccia carico, è morta è sepolta.
Ma non chiedo né comprensione né, tanto meno, commiserazione. Chiedo: e se quello che è capitato alla mia famiglia fosse accaduto in una famiglia tipo? Una famiglia da 1500 euro al mese? Chiedo: abbiamo trasformato i settecenteschi lazzaretti degli incurabili in teatri, gallerie d’arte, centri polivalenti; non sarà il caso di ripristinarli alle loro originali funzioni? Questa che abbiamo voluto e votato è la società delle disgrazie, quella dei lazzaretti dove a un certo punto, finito di lavorare per quelli che vivranno fino a duecento, si va a morire.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 24 luglio 2005