Maurizio Maggiani: Ferita dalla vita, Shabjia illumina la casa di mio padre
Voglio parlarvi di Shabjia, voglio parlarvi della pietas, voglio parlarvi del cuore umano.
Shabjia è la signora che in questo tempo si occupa di mio padre. Mio padre è solo e disperatamente triste da quando sua moglie si è ammalata e i suoi due figli non sono sufficienti a placare il suo dolore, dispersi in case diverse in diverse città come sono; vivessimo tutti ancora nella casa e nell’epoca dove siamo nati la sua sofferenza gli sarebbe molto più leggera e tollerabile, tutto scorrerebbe in modo più naturale e leggero. Ma non è così, non può più essere così, per questo è arrivata Shabjia.
Shabjia è una signora marocchina di nazionalità irachena e di lei conosco il volto, le mani e un po’ della sua storia. Il volto e le mani li ho riconosciuti la prima volta che ci siamo incontrati, come il suo sguardo fermo e mite, come il suo gesto breve e morbido: Shabja l’avreste potuta riconoscere anche voi ai piedi della croce del Nazzareno, attorno alla madre dolente che abbraccia il suo figliolo deposto esanime. È la Maddalena, è Anna, è una delle pie donne. E’ una delle sue figure minori che con puntigliosa accuratezza ci hanno fatto conoscere – e forse non ci abbiamo mai pensato troppo su – i maestri pittori del Trecento. Volti arcaici, immagini di una pietas molto più antica della Croce; pietà sorgiva, priva di ogni genere di vezzo ma fatta della sua pura essenza.
Le mani di mia nonna Anita che mi passano sulla fronte ancora una volta, colme dell’ultimo tepore, madide della sua immensa pietà per il nipote che ha appena incominciato una vita di strade che le paiono incerte e oscure mentre lei sta per concludere la sua, diritta e limpida. Ho visto la signora Shabjia poggiare la mano sulla fronte di mio padre come su quella di un figlio piangente e disperato, l’ho sentita sussurragli dolcemente, colma della stessa pietà.
La signora Shabjia è nata in Marocco, si è sposata con un tecnico iracheno e, a metà degli anni ’80, è andata ad abitare nel Paese del marito. Ricorda l’Iraq di allora come il paese più verde che abbia mai visto, lo ha lasciato, lei dice, che era un Paese nero. È partita subito dopo la prima guerra del Golfo, nel ’92. In quella guerra ha perso il marito e il suo unico figlio; suo figlio era ancora nel suo ventre. E’ successo durante un mitragliamento a bassa quota dei caccia americani, negli ultimi giorni di guerra. Lei e suo marito sono stati sorpresi dall’attacco lungo una delle grandiose e vuote arterie di Baghdad troppo lontani da un rifugio. I caccia spazzavano con le mitragliere le strade volando quasi raso terra. Il marito le ha gridato di buttarsi a terra e restare immobile appena lo avesse visto cadere. L’uomo è stato centrato in pieno dai colpi e Shabjia si è accasciata con lui. È restata riversa sopra il corpo dissanguato del suo uomo con il suo figliolino morto nel ventre.
Una qualunque delle infinite storie della guerra, di una di quelle guerre dove non muore un solo generale, ma crepano per le strade e per i campi e gli autobus e le metropolitane decine di migliaia di cittadini. Ma questa storia ce l’ho in casa, ce l’ho davanti agli occhi negli occhi di Shabjia. E mi sono interrogato su di me. E ho scoperto, facendo un onesto esame di coscienza, che fosse stata la mia storia, fossi stato io nei panni di Shabjia, assai probabilmente avrei passato il resto dei miei giorni di lutto disperato a cercare il modo di farmi saltare in aria avvinghiato al primo baldo aviatore americano che avessi incontrato per strada. Sì, nonostante le mie profonde radici cristiane, questo è ciò probabilmente avrei fatto.
La signora Shabjia no; nel raccontare la sua storia non le ho sentito alcun racconto di odio irrisolto, di cocente rancore nella voce. Le ho chiesto: signora sono passati quindici anni, è molto tempo? È abbastanza per dimenticare? Lei non ha risposto con parole. Silenziosa ha fatto passare la mano leggera lungo la superficie del tavolo dove aveva appena diviso il suo tè con me; e si è guardata le dita come per vedere se qualcosa le era rimasto attaccato, qualcosa che nel tavolo pulito a specchio non si vedeva. E basta. Se non la sua pietà, ancora abbastanza per dispensarne a un estraneo, a un vecchio uomo non ha neppure la forza di ricambiare in qualche modo.
Da dove le viene questa forza che io non ho? Dal suo contratto di lavoro? No, a una badante non si osa chiedere così tanto, non le è richiesta che concreta affidabilità. Dalla sua religione? Shabjia è credente, ma come ben sappiamo in nome della sua fede, come a suo tempo in nome della mia, si esercita l’impietà più abominevole. Credo che non le possa venire che dal suo cuore, dal mistero di grandezza del suo cuore, dalla grazia che il suo cuore ha toccato. E questo è insieme bellissimo e terribile. Bellissimo, naturalmente, ma anche terribile perché non possibile affidare ai cuori toccati dalla grazia ciò che resta delle speranze del mondo.
Non si può perché nessun capo di Stato, nessun generale, nessuno degli uomini che hanno nelle mani il nostro futuro vengono selezionati, od eletti, dopo uno speciale elettrocardiogramma che possa attestare su quanta pietà possiamo confidare. E non credo che si possa confidare su altro, stando così le cose. Non certo sui caccia a volo radente, no di sicuro sull’intelligence, e men che mai sulla professione di fede.
“Tratto da “Il Secolo XIX” , 17 luglio 2005″