Maurizio Maggiani: I candidati sui muri

Ecco, è giunto il momento di volgere il nostro sguardo ai muri: ci saranno importanti elezioni da qui a un mese e dovremmo pur capire se, come e chi votare. E i muri sono lì per orientarci, insegnarci, educarci al voto. Austeri muri di città, materiche superfici in mattone, cemento, intonaco; glabre distese in profilato industriale, lamiera zincata, eternit e carton gesso, sono diventate lo straordinario album fotografico della grande e gaia famiglia dei candidati a governare il nostro futuro. È davvero straordinaria la fiducia che il personale politico riversa nella propria immagine. Pare che tutto ciò che valga la pena comunicare agli elettori sia il proprio volto come se ciò che gli elettori andranno a votare sarà “mister Liguria”, non un presidente o un consigliere regionali. Non ho ancora visto nessuno di nessun partito volantinare per le strade del quartiere le proprie idee e il programma politico che ne prosegue; né ho visto alcuno raccogliere capannelli di cittadini intorno a sé per convincerli della concreta bellezza della propria idea; nessuno mi ha ha avvicinato nella coda per prenotarmi un esame per spiegarmi su come sia davvero possibile una sanità umana, efficiente e efficace. Sono tutti lì, appesi ai muri a mucchi, a mostrarmi il loro muso per ingiungermi di presceglierlo con l’ausilio di uno slogan.
Perché l’idea pare che sia questa: se un buon slogan fa vendere la peggio porcheria, può far vendere anche la mia faccia. Questa è l’idea di politica, di coscienza democratica, di volontà popolare che i muri della città mi invitano a considerare.
E io li guardo in faccia i candidati, uno a uno, e qualcosa imparo.
Prima sconcertante rivelazione: la campagna elettorale è pura, drammatica lotta di classe. Oggi assai più che ai vecchi tempi, anche se in modo difforme da allora. Perché è lotta non di partiti di classe, ma di candidati. I quali si dividono nelle seguenti classi: miliardari, milionari, taccagni. Facilmente riconoscibili in base non a ben identificabili parole d’ordine -gli slogan sono equipollenti in modo inquietante- ma dall’elaborazione dei loro ritratti: i miliardari sono stati elaborati da una affermata agenzia di immagine, i milionari da una sedicente agenzia di immagine, i taccagni dal cognato o dal nipote o dal figliolo con il pallino del computer. Dal manifesto altamente sofisticato, frutto di studio e applicazione di professionisti, a quello pateticamente di basso costo, a quello fatto in casa, o in ufficio nella pausa pranzo. A questo proposito, come è noto, i più importanti candidati, i miliardari, possono non essere ricchi di per loro, ma sostenuti da sponsor; associazioni, aziende, privati cittadini, che elargiscono somme investendo nell’elezione del loro beniamino. Cosa assai meritoria, ma sarebbe di una certa eleganza che gli elettori fossero informati circa i danarosi sostenitori di coloro che potrebbero votare. Così, tanto per capire. Allo stesso modo per cui quando vediamo in TV le previsioni del tempo, sappiamo contestualmente che ci sono state fornite con il supporto di una marca di pasta o di scarpe, quando ammiriamo la faccia di un candidato sarebbe di una qualche utilità scorgerne al fianco i marchi e i nomi dei suoi sponsor.
Ma guardiamoli da vicino questi volti. E per amore della democrazia facciamolo senza distinzione di classe o di ceto. Siccome non si fidano delle parole, o le hanno in disgusto, o le trovano superate, cercano di dire tutto quanto con l’immagine. C’è chi si affida ai simboli. Un volto pensoso con alle spalle una margherita pressata tra degli ingranaggi, così che, siccome il candidato non si esprime, ti interroghi dubbioso se devi votare per salvare il fiore o per levarlo di mezzo e far ripartire la macchina.
Un volto sorridente con alle spalle un volo di delfini impazziti, e tu non sai se i delfini saltano di gioia o in preda a un acuto avvelenamento per via dell’abbondante mercurio presente nelle nostre acque domestiche, e ti chiedi se quello ride perché è appena stato all’Acquario o perché ancora non ha visto la tragedia che si svolge alle sue spalle.
C’è chi sceglie simbologie più complesse, a volte misteriose. La stessa faccia con la stessa immobile espressione che cambia camicia ogni volta che il manifesto cambia muro, come a voler ribadire che quello che conta è un colletto pulito di bucato. Un tale che sghignazza a più non posso, e il mistero è circa il motivo dello sghignazzamento, visto che ai cittadini pare che non ci sia proprio niente da ridere. Un tal altro che si pronuncia in un’appassionata difesa della gattitudine “gatti, non parole”, proponendo con straordinario coraggio un’assemblea regionale occupata da silenziosi, nobili, circospetti felini.
Niente cosce e glutei – per decenza o carenza non saprei – ma molte pancette e trippe esibite evidentemente come segno di benessere, di placida accondiscendenza al destino, all’età, al buon prò. E brufoli, occhiaie, maglioni slabbrati, spalle ricurve, pantaloni stazzonati, perché la politica non rende altro che pene e dolori. Come tutti sappiamo.
E mi chiedo perché io dovrei andare a votare, se tutto quello che devo fare è scegliere tra ciò che i muri della città mi rinfacciano: la mia incapacità di cittadino a porre un limite alla decenza di quella che senza ombra di dubbio è la società dello spettacolo. Di gran gala o da due soldi che sia.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 27 febbraio 2005