Maurizio Maggiani: Lo sfollato da influenza
Naturalmente l’ho presa. Naturalmente a suo tempo ho fatto i vaccini. Due tipi di vaccino, naturalmente: quello standard, allopatico, che costa il doppio che nel resto d’Europa, e quello omeopatico, che costa il triplo. Forse è per questa mia particolare cura della prevenzione che manifesto i sintomi di tutte e due le influenze presenti sul mercato: quella gastrointestinale e quella broncopolmonare. Complimenti, Maggiani.
Del resto che ci vuoi fare? In giro c’è pieno. Avete per caso notato che da un po’ di anni, qualunque disturbo proviate e chiedete al medico, la sua pronta risposta è invariabilmente: in giro c’è pieno. Abbiate l’anemia, il mal di denti, la colica renale, o, dio non voglia, il sarcoma di Kaposi. Ma anche se ne parlate coi vicini di casa o con gli amici, di qualunque malattia “in giro c’è pieno”.
O siamo preda di una mostruosa forma collettiva di ipocondria paranoica, o, davvero, ci stiamo ammalando di più e peggio. Abbiamo raggiunto grandi traguardi di civiltà e benessere. Abbiamo insediato nelle nostre città una farmacia ogni venti metri, teniamo in memoria almeno tre o quattro cellulari di specialisti, la televisione ci garantisce un minimo di cinque ore settimanali di corsi di aggiornamento sulle malattie e su come tenercene alla larga, ci nutriamo che nemmeno i re erano delicati come noi, ma non per questo siamo più sani. Facciamo vaccini, prendiamo vitamine, succhiamo granulini, spremiamo arance mattina e sera, ma l’influenza pare che ogni anno si faccia più dura e pericolosa e il nostro fisico meno reattivo e tenace.
Una cosa è certa; viviamo in epoca di gravi crisi e depressioni e le uniche due cose che vanno veramente bene, in grandiosa fioritura, sono le guerre e i virus. E forse i virus sono l’esercito vittorioso dell’ultima guerra, quella che perderemo tutti. Tutti noi umani. E l’universo sarà finalmente placato, e la pace regnerà in un mondo placido e libero, governato con magnanima saggezza dai virus influenzali, specie meritatamente dominante del pianeta azzurro. Ci sono scienziati di indiscusso valore pronti a giurare che è solo questione di tempo; e di secoli, non di millenni. Si, i virus sono sempre più forti, ma non è solo questo: è anche vero che noi siamo sempre più deboli. Se non nel soma, probabilmente nella psiche, di certo nel psicosoma. L’unica che è in piedi nella mia famiglia è mia madre. Ha ottantadue anni e da cinquanta almeno, da quando sono testimone, è una di quelle signore che “non è che sto proprio bene”. Credo che conosciate il tipo. Naturalmente non l’ho mai vista a letto per più di mezza giornata. Attualmente approvigiona le tre generazioni di cui si sente responsabile facendo la spesa tutti i giorni. Si difende dal contagio imbacuccandosi di sciarpe e cappotti, ma questa mattina, quando mi ha consegnato i viveri, ho intravisto sotto il triplo strato di scialli i suoi bianchi capelli composti in una certa qual permanente. Si tiene, come lei dice, e anche questa è una forza. Il suo medico è a letto con la polmonite – complicanza dell’influenza – al pari della buona metà dei medici di famiglia, e lei ha comprato le mele renette per fargli una torta, nel caso stesse un po’ meglio. Si dà da fare, e anche questo la rafforza. Mettendo in ordine le arance per la mia spremuta, mi ha raccontato della città che ha intravisto dal suo lanoso chador. Mia madre è molto espressiva e il suo racconto è stato in stile manzoniano. Qualcuno ricorda la Milano della peste? Come esserci. Ambulanze per strada che raccoglievano moribondi calati dai portoni da parenti con occhi febbricitanti. Figuri con inequivocabile borsetta medicale in pelle che suonavano con insistenza a citofoni che restavano muti. Giovinastri con gli occhi cerchiati che tossivano sulle fioriere dei marciapiedi immonde mucose. Ed altro. Il suo è stato un racconto epico, svolto con lo stupito distacco di chi è già oltre ciò che ha visto. Mia madre va avanti, non si fa fermare da niente; ha fatto la guerra e la fame, ha ben altri ricordi. Sa che essere vivi è quello che conta alla fine, e più le cose si mettono male, più è necessario allungare il passo. E anche questa è una gran forza. Io non ce l’ho, e la prima cosa che ho fatto, al raggelante primo sintomo influenzale, è stato sfollare, lasciare la mia casa genovese e andare nella vecchia casa a un passo da quella di mia madre. Non si sa mai, ho pensato, collocandomi senza neanche pensarci su nella posizione del malato afflitto da spavento. Neanche ci fosse la peste in giro, neanche ci fosse la guerra.
Che, naturalmente, ci sono, ma altrove. Dove la gente non ha né spremutine, né granulini e men che meno medici di famiglia e vaccini. Dove per l’influenza e mille altre stupide malattie si muore, e per davvero, come mosche.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 13 febbraio 2005