Maurizio Maggiani: La svendita delle ferrovie

Il progetto è di siderale ambizione, la scelta di dimensioni epocali: liquefare nell’acido la più grande industria del made in Italy, una delle più grandi aziende d’Europa, e venderla al peggior offerente a prezzo di rottamazione. Perché questa titanica impresa prenda corpo e soluzione è necessario uno sguardo che si spinga oltre l’immediato orizzonte e una diamantina fermezza; e più l’obiettivo fatidico si avvicina più occorre disporre di queste doti in eroica quantità. Perché la storia insegna che ogni grande impresa ha le sue vittime, e il popolino che si compiace dei suoi irrazionali sentimenti è il peggior nemico che si possa trovare innanzi un Riformatore. Ma siamo alla conclusione ormai, siamo ai passi fatali, alle decisioni irrevocabili; questo Paese avrà da lamentarsi di molte cose circa il suo personale politico e manageriale, ma non certo al riguardo delle ferrovie nazionali: la coerenza dei suoi quadri dirigenti e dei politici che li guidano è al di sopra di ogni dubbio: le ferrovie della Repubblica, già orgoglio del regno e vanto del ventennio, sono pronte per essere alienate al modo che più conviene agli interessi di chi se le papperà.
Sarà forse necessaria ancora qualche vittima, magari un paio di scontri frontali, qualche ulteriore taglio nei settori chiave, ma è solo questione di tempo. Di dargli un po’ di tempo ancora.
Come si liquida la maggiore azienda nazionale? Ecco i tratti salienti della più grande impresa di demolizioni della storia del Paese. Le Ferrovie dello Stato sono state smembrate in più di cento aziende pseudo-private, ciascuna presieduta da sindacalisti, politici e clienti di tutto l’arco costituzionale. Imprese o appalti per pulire, per cambiare l’inchiostro nelle obliteratrici, per cambiare le lampadine nelle carrozze, per guidare i treni merci, per portare i passeggeri umani, per mantenere le stazioni, per dare un’occhiata alle rotaie, per fischiare il via libera, ecc. ecc. Oggi ci sono circa centomila dipendenti in meno di quindici anni or sono. Meno operai, meno macchinisti, meno conduttori, meno bigliettai, meno officine, meno stazioni.
Razionalizzazione e contenimento dei costi. Peccato che il monte salari sia rimasto pressoché invariato; interessante sapere come è stato spartito il meraviglioso bottino di centomila salari risparmiati: forse guadagnano il doppio i bigliettai e i manovali della linea? Ma quanto bisogna pagare un manager perché firmi la delibera della chiusura di una stazione, o il raddoppio dello straordinario consentito, oppure per applicarsi con necessaria creatività nell’assegnazione degli appalti? Molto in Italia, e ci sono ormai nelle ferrovie più manager che addetti alla manutenzione delle linee. Ma sapete perché metà delle porte dei treni è guasta? Perché non ci sono più officine per ripararle. Sapete perché i locomotori si guastano? Perché non esiste più il controllo che per 15.000 vecchie lire facevano i macchinisti ogni 6.000 chilometri e macchine vecchie di cinquant’anni vanno al controllo ogni 50, 60.000 chilometri. Se si guasta il riscaldamento, se si bruciano le lampadine, se si sfonda un sedile, è più razionale sigillare il vagone o, meglio ancora, lasciare perdere. Perché il modo più sicuro di distruggere un patrimonio fatto di roba buona – e le ferrovie sono state fatte a suo tempo con roba buona- è di evitare la manutenzione.
Date un’occhiata alle targhe che trovate in ogni vagone, in ogni locomotore per rendervi conto di quanto sia vecchio il materiale che sferraglia su e giù per il Paese. Date un’occhiata ad un orario di venti anni fa e a uno di oggi per rendervi conto di quanto si siano allungati i tempi di percorrenza. Considerate il fatto singolare che un cosiddetto Eurostar di oggi sulla linea tirrenica è più lento di un antico espresso. Perché? E poi, perché è al collasso la società del trasporto merci? Perché oggi viaggiano per ferrovia due terzi delle merci di venti anni fa? A proposito: perché nelle linee a un solo binario non si adotta uno dei molti sistemi capaci di impedire gli scontri frontali anche in caso di errore umano? Quanto costa farlo su tutta la rete? Forse la metà di quanto le ferrovie spendono per darsi un’impudica immagine di se stesse?
A cosa è servita la regionalizzazione del trasporto locale? Chiedetelo ai pendolari a cosa è servita, chiedetevelo quando scoprite che non esiste più un sistema di coincidenze e ve ne state un paio d’ore in una stazione deserta e dismessa perché il locale che vi serviva è partito un secondo prima che il vostro treno si fermasse sul marciapiedi. Chi ci ha guadagnato con la regionalizzazione se non ci hanno guadagnato gli utenti? C’è una sola cosa che pare funzioni bene da dieci anni a questa parte: la Milano-Roma per Eurostar. E questo è il bocconcino d’oro, la fetta della torta da lasciare all’ospite di riguardo al cenone per la spartizione delle fu Ferrovie dello Stato.
L’epocale svolta demolitoria non è di oggi. Il genio della dissoluzione ferroviaria ha operato al tempo bello dei governi tecnici e dei governi di centrosinistra degli anni ’90. Il mitico presidente Lorenzo Necci, amato dalla destra, ambito dalla sinistra, auspicato come possibile primo ministro super partes; oggi in dorato esilio con un bouquet di sentenze e condanne da smaltire. Lo ha sostituito alla guida dello sfacelo il dottor Giancarlo Cimoli, quello della famosa cura omonima con cui si spera di salvare l’Alitalia.
Il diritto alla mobilità, a potersi spostare in tempi ragionevoli a un prezzo ragionevole, è uno degli indici della democrazia. Il diritto alla mobilità ogni cittadino se lo dovrebbe garantire semplicemente pagando le tasse. Per questa ragione le ferrovie sono un bene pubblico e la privatizzazione deve comunque garantire questo diritto. La dissoluzione e la svendita sono un atto grave di sopruso e tirannia paragonabile alla dissoluzione del sistema scolastico o della riserva aurea della Banca d’Italia. E se penso alle ferrovie d’Italia oggi mi viene in mente l’inizio della fine dell’Argentina ieri. Tutto cominciò con la svendita delle infrastrutture strategiche del Paese.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 9 gennaio 2005