Maurizio Maggiani: La memoria della nostra vita
Ho fatto testamento. Olografo, a norma: due paginette, scritte a mano perbenino, con la firma per esteso e ben chiara, indirizzate al mio avvocato che nel riceverle, lo so, si toccherà laggiù. No, niente di drammatico: ho solo in programma un paio di viaggi nella parte appena pacificata del mondo. Lì non temo attentati e rapimenti, temo le linee aeree deregolamentate e l’entusiasmo affaristico dei neofiti. Del resto, ho scoperto, essendo in buona salute il proprio testamento è un atto di vita conciliante e pacifico, un tranquillo resumè, un buon momento di meditazione su ciò che si è e su ciò che si ha.
Io non ho niente, niente che valga la pena di essere messo per iscritto, eccezion fatta per me stesso. Il mio corpo. È di lui che mi sono occupato nel mio testamento. Ho voluto che fosse chiara la mia volontà al riguardo delle mie terrene spoglie. Le spoglie, come di una serpe, di una crisalide: il guscio vuoto di ciò che sarò stato. Ho espresso la volontà che il mio guscio sia cremato e le sue ceneri disperse nella terra che mi ha generato. È un fatto personale, non credevo che valesse la pena di scriverci sopra, fino a quando non ho letto che l’arcivescovo di Genova, cardinale papabile, Tarcisio Bertone, ha sentito la necessità di dichiarare pubblicamente la contrarietà della dottrina cattolica al riguardo. Non so quanto in coincidenza con una affascinante campagna pubblicitaria di una azienda che offre questo servizio.
Che storia antica, questa, che antica questione quella dei sepolcri. Mica solo cattolica, bipartisan. Ricordate l’ateo mangiapreti Ugo Foscolo? All’ombra dei cipressi e dentro l’urne coronate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Lui pensava di sì, in definitiva. No, io credo di no. Credo che il sonno della morte non sia duro per niente; anzi, qualunque cosa riesca ad immaginare, non immagino un sonno. Non ho la grazia di una salda fede, ma sono portato a credere come i cristiani che il destino dell’anima di un uomo cattivo sia la perpetua sparizione nel baratro del niente assoluto, e quella di un uomo buono sia destinata a durare per sempre. E nel suo eterno essere in tutto sarà occupata tranne che a rivangare nelle sue dismesse spoglie. Per questa ragione penso che i vivi si debbano occupare della vita, impegnandosi a prosperarla, e che lascino pure i morti a seppellire i loro morti. Parole del Cristo. Che non ha predisposto il proprio sepolcro, che ne ha usato uno in prestito, e l’ha usato ben poco, come sappiamo.
Non credo dunque che i morti necessitino del sepolcro, credo invece che sia necessario ai vivi. Per la loro buona e cattiva coscienza, perché il pianto foscoliano consola e protegge. Protegge dalla solitudine, consola dell’assenza. Ci consente di pensare che l’uomo che abbiamo amato, o odiato, sia ancora disponibile e non irrimediabilmente altrove. Questo ci sgomenta alla fine della morte: che apra una porta su un altrove inimmaginabile. E abbiamo bisogno di immaginare, di farcene una ragione, di trovare una qualche soluzione. Da sempre. Le prime religioni dell’uomo sono state religioni della morte e dei morti e i fossili di quelle religioni permangono nei nostri nuovi costumi e fedi con la forza di una necessità inalienabile. Non c’è di fatto niente di più genuinamente pagano della venerazione dei morti e dei loro sepolcri, e noi latini portiamo ancora nel nostro cuore la religione dei lari e dei penati. Da questo punto di vista il “lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” rimane uno degli inviti meno ascoltati del Cristo. Evidentemente, una religione della vita è insostenibilmente rivoluzionaria. Rivoluzionaria almeno quanto una fede che imponga di essere innocenti come fanciulli e poveri come un passero.
Io desidero naturalmente che qualcuno si ricordi di me, perché spero che la mia vita abbia dato motivo per occupare la memoria di qualcuno in modo benigno. Ma non desidero ingombrare né la terra né l’anima di nessuno. Voglio sperare che l’anima di chi resterà sia abbastanza grande per non avere bisogno di sussidi lapidei per contenere il mio ricordo. Voglio sperare che chi rimarrà si occupi a tempo pieno della vita, della sua e dell’universo intero. Personalmente non frequento sepolcri e mi sottraggo alle cerimonie di rimembranza. Eppure non ho perso la memoria. Non quella delle persone amate, non quelle delle persone rispettate. Ricordo perfettamente, ad esempio, i molti morti per la libertà del mio paese, e come sono morti, conservo il mandato della loro vita, senza aver bisogno di portare corone ai cippi. Vive qui accanto a me la mia nonna Anita e mi parla, senza mai chiedermi di cambiare l’acqua ai fiori della sua tomba. Che è ancora là a Castelnuovo, e certamente ha i fiori freschi, perché noi contadini i nostri penati continuiamo a venerarli allo stesso modo di diecimila anni fa, troppo avvinti come siamo alla terra e alla materia del creato, poco propensi alla spiritualità e alle rivoluzioni.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 14 novembre 2004