Maurizio Maggiani: La cura delle cose

Solo, mi sono accorto che ciò che più sfianca la mia volontà di ottimismo morale, il mio animale desiderio di vivere in pace, è, più dei grandi fatti tragici, il minuto, onnipresente, generale e apparentemente inesorabile degrado delle cose a me più vicine. La decadenza, il disfacimento di ciò che posso toccare con mano, che vedo camminando, che incontro vivendo. Si, se questa è l’epoca della guerra eterna è anche l’epoca della generale decadenza, e se una cosa è correlata all’altra non so dirlo, ma certo non ho un’intelligenza così vasta da tenerle ben separate e stagne nella mia percezione della realtà. Forse sto inesorabilmente perdendo la ragione, ma in questo momento, ad esempio, la cosa più triste e angosciante del mondo ai miei occhi è una fontana.
Nella città di Spezia, la città dove sta crescendo mio nipote e invecchiando i suoi nonni, la città dove incontro i miei teneri, sconsolati amici, c’è una nuova fontana e una piazza appena rifatta per lei. Non c’è niente di più confortante di una piazza e di una fontana per la gente che ci vive attorno, per i bambini che hanno voglia di giocarci, per i vecchi che la vogliono commentare; per i passanti stanchi, per i turisti indecisi, per i nevrastenici in cerca di pace. La marmorea fontana ha la singolare, incoraggiante forma di una prosperosa vagina; monumento alla fecondità e alla vita, antica divinità pagana della Terra. Stimolo appropriato per una delle più depresse città d’Italia. È la prima cosa che vedo scendendo dalla stazione in centro, e vedere quella fontana ha fatto bene tante volte anche a me. Il suo dolce scrosciare, il pissi pissi della gente seduta al bordo che sta facendo conosceza, il zing zing dei monopattini dei bambini in circuito attorno. È bastato che passasse un anno, poco più, e questa sera, arrivando, ho visto i resti già in avanzato stato di disfacimento di quella fontana. La vasca incrostata di un palmo di muffa nel chiaroscuro delle poche luci rimaste in funzione, due miserandi bevitori di birra seduti sul lercio parapetto, in silenzio a dare calcetti svogliati ai cartocci sparsi per terra. Decadenza, abbandono. La città non ha saputo amare la sua fontana, come se ne avesse mille, e non ne ha nessuna. La città non sa neppure mantenere in vita ciò che le è molto costato delle sue pochissime risorse. Perché? Credo che sia per la stessa identica ragione per cui su per le splendide scalinate che salgono poco lontane da quella piazza, le erbe selvatiche hanno mangiato porfido e pietra serena e gli alberi sono stati lasciati ammalare e poi morire. La stessa identica ragione per cui si sono lasciate decomporre e marcire le ferrovie del paese, degradare le pubbliche scuole, interrotti a metà mille cantieri. Perché non ci sono soldi, si sa. Perché non ci sono risorse per la cura delle pubbliche cose.
La cura, curarsi di ciò che ci appartiene perché ci renda la vita migliore, più tollerabile anche in tempo di disgrazia. Perché proprio nei tempi grami abbiamo più bisogno delle nostre fontane, delle nostre scalinate, delle nostre scuole e ferrovie, e curarle perché non ci abbandonino. La decadenza mi spaventa più della guerra. Vivere pensando che forse pagherò cento euro di meno all’anno di tasse mentre i treni deragliano e mio nipote ha appena fatto il suo primo giorno di scuola su un banco dove è inciso un graffito del più che maturo padre di un suo compagno, un banco che si regge su tre zampe solo, vivere nella decadenza mi fa più paura della guerra. Si, si sono fermate molte guerre assai prima di quanto le loro vittime potessero immaginare, il disfacimento è quasi sempre inarrestabile. Perché fermarlo costa assai più che fermare una guerra.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 26 settembre 2004