Il prezzo della bellezza
Vorrei parlarvi della bellezza e chiedervi qualcosa circa la bellezza. Se la bellezza è un lusso, un di più, un addobbo opzionale, oppure se è un diritto, un dovere, parte essenziale della vita come lo è la tutela della salute, dell’ordine pubblico, o il diritto al pane, all’acqua. Vorrei chiedervi se pensate che sia giusto rinunciare alla bellezza per altri beni, in cambio di altri servizi, in favore di altre opzioni. Vorrei parlarvene senza mettere su un discorso pomposo e astratto, ma riferendovi di cose molto pratiche su cui ho riflettuto passeggiando, semplicemente, per questa città di Genova, che ancora per le sue bellezze continua a meravigliarmi e per le sue bruttezze a scandalizzarmi. Una bellezza e una bruttezza molto semplici, molto pratiche, quotidiane.
Faccio quasi tutti i giorni una passeggiata fin su al Righi; parto sempre da Carbonara, dalla crosa di San Nicolò che sale a lato dell’Albergo dei Poveri, il vecchio Istituto Brignole. Credo di conoscere molto bene quell’antico palazzo, e pur vedendolo mille e mille volte non smetto mai di constatare la sua bellezza. Non è un palazzo monumentale, non è una reggia, è, per l’appunto, un vecchio pubblico dormitorio, ospizio per indigenti, luogo di pubblica carità. Eppure è bello, e a rendermelo bello è senz’altro quel di più dalla sua cruda funzione che gli è stato applicato: l’armonia intrinseca della costruzione, il grande dipinto sulla facciata. So che è stato costruito con un’idea su come dovessero essere ospitate delle persone che oggi risulterebbe inaccettabile, o così almeno spero, ma certo è stato costruito pensando anche alla sua bellezza, spendendo per questo qualcosa, forse molto. Salgo la crosa di San Nicolò, una salita semi abbandonata, e se non sono troppo preso a vedere di non infilzarmi qualche siringa nelle scarpe, mi godo la sua bellezza, la bellezza del suo disegno a tornanti, la bellezza della materia, mattone e pietra, con cui è stata costruita qualche centinaio di anni fa, allo stesso modo di tutte le altre strade pedonali della città. Anche quando camminare è solo una necessità, è bello farlo nella leggiadria di una bella strada; allevia la fatica, alleggerisce il passo. Alla fine della crosa, la prima cosa che mi si para allo sguardo di là da corso Firenze, è la fantasia sognante, folle e romantica di un castelletto Bruzzo in stile Coppedè, la massicciata sulla strada tutta elaborata a giardino di pietra. Sconcertante, strana, pazza idea dell’abitare, ma pur sempre bellezza. E la seconda cosa che guardo, volgendo a sinistra è il nuovo, appena terminato, Istituto Brignole, Il Brignole 2, la vendetta. Non sarà un albergo dei poveri, ma un ricovero per anziani nemmeno troppo indigenti, perlomeno in grado di pagare qualcosa per restarci. Ma non è questo ciò che conta; sia per chi sia, è una delle costruzioni più repellenti che abbia mai visto in città. Nessuno, credo, possa varcare quella sua soglia con spirito sereno, lieto di farlo; nessuno può pensare che dietro il profilato nero delle sue imposte, sotto il verde criminale dei suoi neon possa succedere qualcosa di buono per sé. Certo, certissimo, che i suoi alloggi saranno assai più decenti delle camerate dell’antico istituto, che i servizi igienici assai più numerosi e decenti, il personale infinitamente più accudente, o almeno così si spera. Ma non c’è nessuna bellezza lì, nessun conforto per l’anima. Se esiste un’anima che ha bisogno di bellezza.
Attraverso la strada e salgo per la crosa delle Mura delle Chiappe. Ancora una splendida strada costruita con una leggiadria che comprende, a ogni tornante, un piccolo poggio di pietra che è solo lì per offrire il panorama a chi voglia gradirlo. Non è una strada turistica: per quella salita sono passati milioni di volte uomini e donne carichi di pesi, andando o tornando da un qualunque lavoro. Ciò non toglie che volendo, gli è stato loro offerta la possibilità di prendere fiato godendosi una bellezza. All’inizio della salita ci sono due pali della luce, uno in funzione e uno dimesso. Quello funzionante è un palo standard dell’Enel, uno dei milioni che impestano il territorio, quello dimesso è un vecchio palo del municipio, in ghisa, decorato in stile liberty. Già, c’è palo e palo, e quello antico dice qualcosa su come anche uno stupido palo può essere ben fatto, può essere bello. Pensate che io sia pazzo quando penso che mi piacerebbe vivere circondato da dei bei pali della luce? Aggiunge qualcosa di essenziale alla vita un palo bello a vedersi? Io credo di si.
Io non credo invece che sia possibile vivere bene nello squallore, io non credo che sia giusto che accada. Credo addirittura che sia stupido, ignobile, costringere gli uomini a vivere nello squallore. Il fatto è, ti dicono, che la bellezza costa. Già. E che una volta era possibile fare le cose belle perché la manodopera costava poco. È vero. Ma è vero in parte. Se costruisci dieci, cento milioni, che è quanto ne servono, di eleganti pali della luce, il di più di costo per la bellezza inciderà forse dell’1 per cento sul totale della spesa. Se vuoi fare della bella architettura il suo costo aggiuntivo non sarà superiore al 5, 7 per cento rispetto a una schifezza. In un paese che è 200 volte più ricco di cento anni fa, è proibitivo spendere per la bellezza? Davvero non possiamo più permettercela?
Sono portato a credere che non sia tanto la mano d’opera, quanto il di più di guadagno a rendere proibitiva la bellezza. Ciò che chiamiamo speculazione è il nemico numero uno della bellezza. Non c’è in città palazzo popolare, casa operaia costruiti prima della guerra che non abbia, seppur minimo, un suo segno di eleganza, di gratuita offerta di buon gusto. Fate una gita a Quezzi a constatare se mai ne trovate traccia. La domanda è: quanto sarebbe costato rendere più umano un palazzo di Quezzi? Oppure è: quanto ci avrebbe guadagnato di meno chi l’ha costruito?
Non so, non so proprio se ciò che mi chiedo salendo verso Righi abbia una risposta, se la meriti una risposta. So solo che l’altro ieri, entrando nella casa dei carbuné, nella vecchia sede della Pietro Chiesa, mi è cascato l’occhio su un’iscrizione, ormai semisepolta dalla polvere di carbone e dall’incuria. Dice: ricordati che un lavoro, anche il più umile, se è fatto bene crea bellezza. Cento anni fa dei miserabili scaricatori di porto entrando nel luogo del loro lavoro la prima cosa a cui erano invitati a pensare era la bellezza insita in ciò che stavano facendo. Incredibile che possa sembrare, loro avevano tempo e testa per pensarci.
Secolo XIX, 22.11.2002