Maurizio Maggiani: Questa scuola retorica genererà rivoluzionari
E anche quest’anno Miriam se n’é tornata a scuola. Lo fa da ventisette anni: fa la maestra. Lavora nella scuola sotto casa, la conosco da un sacco di tempo, le parlo da anni. Ha una sua storia Miriam, che è anche la storia della scuola, la storia dei bambini del quartiere, delle loro famiglie. Una vita comune di uno qualunque maestra in una città qualunque. Fa questo lavoro da quando aveva vent’anni; le piace e ha il carattere adatto, maternamente severo. Ha da tempo contratto la malattia professionale delle maestre, quell’afonia che non guarisce mai del tutto e che molti bambini di molte generazioni hanno scambiato per punizione divina.
E’ riuscita nel corso degli anni a laurearsi in pedagogia, segue corsi di aggiornamento, si informa e continua a studiare. Ha in tasca da sempre la tessera di un sindacato di cui non è contenta ma che continua a pagare. Ha seguito un corso ministeriale di inglese di base e ora lo può insegnare ai suoi alunni, sta seguendo un corso di informatica e potrà insegnare anche questo. Non è contenta del suo inglese né di quello che sta imparando di informatica: dice che sa troppo poco per poterlo insegnare a dovere. Potrebbe perfezionarsi, ma dovrà farlo a sue spese. E adesso non può. Non può perdere perché non ha i soldi per farlo; ha già contratto un piccolo prestito per comprarsi una Punto.
Vive sola in una casa in affitto; quest’anno non è andata in vacanza, fa la spesa al discount sotto casa e si veste al mercato e alle liquidazioni. Con tutta quella anzianità che ha guadagnato molto, quasi 1200 euro. Un suo collega giovane ne prende 300 di meno. Miriam prende 200 euro in meno di un facchino appena assunto alla Volkswagen di Wolfsburg.
Mi ricordo di quando ero ragazzino. Allora i maestri dovevano essere ricchi: potevano comprarsi l’auto a rate e andarci un mese in vacanza al mare con tutta la famiglia. Ai tempi che in casi lavorava uno solo. Li invidiavamo i figli dei maestri. Come facevano? Cosa è successo nel frattempo? Miriam mi ha parlato della riforma Moratti. Non mi ha fatto discorsi complicati. Mi fa vedere una pagina intera di pubblicità di quella riforma. Quanto sarà costata? Mi chiede. Sono tre anni che i soldi che abbiamo a disposizione a scuola, quelli per comprare ogni cosa che ci serve per insegnare, diminuiscono dl 10 per cento. Quest’anno siamo al quaranta per cento in meno di libri, di gessetti, di tutto. In questa scuola ci sono 102 bambini e due computer. Uno ce l’ha regalato un giornale perché era vecchio, l’altro è vecchio e basta. Come farò a insegnare, ammesso che intanto impari a farlo? E che inglese impareranno se ne so così poco? E dice la pubblicità che ci sarà un tutore. Nella mia classe di 28 bambini, cosa potrà fare un tutore per tutti quanti? Cercheranno i soldi per fare di questa pubblicità qualcosa di concreto, dove? Non ci sono da nessuna parte. Non ci sono neppure quelli che dovevano esserci l’anno scorso e l’anno passato ancora. Sì, lo so dove li possono trovare, riducendo il personale. Aumentando i bambini nelle classi, diminuendo i sostegni. Come potremo fare bene il lavoro a quel punto?
Non parla dei grandi temi la maestra Miriam, ma solo di quello che abbiamo davanti gli occhi. Niente di speciale che nella scuola materna sotto la sua, ci saranno dieci ore in meno per i bambini alla settimana. Non mi dice, perché io so già, che lei, come altre colleghe, va a scuola prima del tempo per raccogliere i bambini che hanno i genitori che vanno a lavorare troppo presto. Lo fa senza nessun obbligo di farlo, senza, naturalmente, alcuna tutela. Lo fa perché è del quartiere, perché ci conosciamo tutti. Come io vaso a raccontare storie gratis e a gratis qualche genitore si rende utile in altro modo. Ci rendiamo tutti utili per una scuola che deve servire per una scuola che deve servire ai nostri figli. Sperando che possano essere migliori di quello che può farne l’inglese, l’internet e l’impresa della riforma ultima. O penultima, o terz’ultima.
Hanno inaugurato l’anno scolastico in pompa magna all’Altare della Patria. Che pena quei ragazzini in costume con i cartelli: W la scuola, W l’Italia. A precipitare giù nel cuore degli anni ’50. Allora, almeno, gli orfanelli che erano comandati a farlo, avevano delle divise militari che facevano invidia da morire a noi con genitori a carico. Dopo la mesta cerimonia agli orfanelli davano la brioscia con il bicchiere di latte, a noi niente. Rientravamo in classe e il maestro ci faceva fare il dettato. E odiavamo l’Italia intera.
A diciott’anni, noi e gli orfanelli, brandendo alla rovescia quei cartelli, abbiamo messo sottosopra la scuola e l’Italia. Chissà, magari questa deprimente riforma e la retorica che l’accompagna serviranno a formare una generazione di rivoluzionari. Se sapranno imparare dagli errori di quella che li ha preceduti, faranno un gran bel lavoro. Buona fortuna bambini di via Montello, buon lavoro bambini d’Italia.
“Tratto da: “Il Secolo XIX”, 21 settembre 2003″