Maurizio Maggiani: Grandi speranze
Scrivo alla fine di una tremenda giornata di vacanza marina. Non fosse stato per due amici miei calati alla disperata dai forni lombardi, me la sarei volentieri risparmiata, ma come fai a dire a gente che si è fatta quattro ore di coda per darsi un po’ di sollievo nelle pregiatissime acque delle cinque Terre, che tu al mare preferisci andarci nei giorni in cui la gente normale sgobba in uffici e officine? Ci siamo ficcati dentro un treno del tardo mattino, biglietto regionale week end a tariffa maggiorata, perché è giusto che chi se la va a spassare spenda quel tantino in più. Treno stragonfio di gente.
La moltitudine di chi non ha motoscafi, velieri o denaro per località più esclusive di una spiaggia dove puoi, se arrivi in tempo, noleggiare una sdraio a castello. Gente che per arrivare a quella sdraio si pigia dentro un carro sedicente passeggeri, in piedi, cercando di non sentirsi male per non disturbare il vicino che, lo vedi, sta già male anche lui, e forse gli prenderà un malore e prima dell’agognata meta soffocherà tra i borsoni di plastica gonfi di asciugamani, panini, secchielli e palette. Non c’è diritto a nessuna dignità su un treno per il mare a tariffa week end, se non a quella che tu puoi tirare fuori con i denti per non darla vinta alla turpe associazione a delinquere tra Trenitalia ed effetto serra.
Ho viaggiato per quaranta minuti spiaccicato tra due ragazzi e la porta della latrina; è stato un viaggio molto interessante: li ho ascoltati per tutto il tempo parlare del loro lavoro. Lavorano in un call center, pagati in nero la miseria bastante a salire su quel treno al dì di festa e provare a mettere un asciugamano da qualche parte al mare di casa loro.
Fanno un lavoro di “merda”, il tipico lavoro di un call center: frapporsi fra chi ha bisogno di informazioni e chi dovrebbe darle, dando risposte che per lo più non hanno la possibilità e la scienza di dare. IL loro discorso non aveva il tono del lamento, ma della nuda e creda constatazione: una frustrazione senza rimedio e senza consolazione. Trattati come pezze da piedi, come se il solo fatto di aver accettato quel lavoro fosse l’implicita ammissione di una colpa; l’amica licenziata appena la pancia ha tradito la scarsa produttività di una futura madre. Non solo nessuna certezza, ma nemmeno nessuna speranza, nessuna opportunità. Questo ho ascoltato: la certezza di una precarietà immobile che dilaga del lavoro all’anima, ai sentimenti. E ci ho pensato su tutto il giorno, sulla mia sdraio in riva al limpido mare di Monterosso, a stretto contatto di sudorazione dei miei amici lombardi, grati di un giorno al mare.
Ho pensato a questa generazione di lavoratori, alle molte centinaia di migliaia di giovani uomini e donne istruiti, cresciuti nella contemporaneità globale, e mi sono chiesto quanto sarà diversa la loro vita, se avranno mai maggior animo, maggiori speranze, più opportunità, vere opportunità, di emanciparsi dalla contingenza di una precarietà senza libertà, di quante ne aveva un bracciante servo perso in un latifondo lucano nel cuore degli anni ’50. Quanto peserà nel loro futuro di adulti, aver trascorso l’età della loro giovinezza nella frustrazione delle più degne aspettative, in una società che spiega loro che ciò che hanno avuto è il giusto e il resto è solo invidia di classe. Mi chiedo cosa resterà loro da dare ai propri figli, al mondo, all’universo, se non hanno per sé altro che un oggi da ripetersi all’infinito. Si dà la pura coincidenza che io conosca il proprietario di quel call center. Non mi pare una persona cattiva, credo persino che abbia sempre votato a sinistra. Dalla giunta di sinistra ha avuto facilitazioni per aprire la sua attività, e contributi dalla collettività. Immagino che creda sinceramente che così va il mondo e non ci sia niente da fare: gli affari sono affari. Paga per la sua villa al mare 5000 euro al mese e non lo sfiora nemmeno l’idea che ci sono stati imprenditori, e forse ce ne sono ancora da qualche parte sperduti nel vasto mondo, che hanno vissuto lunghi ani in case assai più economiche pagando meglio i loro dipendenti, spendendo per la loro dignità, consci che usavano denaro che veniva dal lavoro di quegli uomini e non dal diritto divino. Il punto è: si può legittimamente chiedere a un uomo – alle migliaia di uomini come lui – che può permettersi una casa da 5000 di accontentarsi di una da 2500 e rendere il rimanente alla felicità dei suoi dipendenti e alla prosperità della sua azienda? No, non si può. Perché come cita volentieri il nostro primo ministro “è solo dalla cupidigia degli individui che può generarsi lo sviluppo”. Lo sviluppo di chi, lo sviluppo per cosa? Io sinceramente non lo so, so solo che vorrei non vivere qui, ora, e ascoltare due giovani uomini parlare della loro vita da niente come fosse l’unica possibile. Ho passato una giornata di festa al mare pensando al lavoro. Non mi ha fatto bene. Sono qui e, adesso che ci penso, ancora non so se e come voterò l’Articolo 18. Che oltretutto, forse non c’entra niente, o forse c’entra poco con la conversazione tra i due giovani lavoratori in viaggio verso il mare.
“Tratto da: “Il Secolo XIX”, 15 giugno 2003″