Maurizio Maggiani: Italiani primi in pacifismo

Me ne vengo da Parigi, capitale mondiale della pace. Non è che ci sia la scritta all’uscita dell’aeroporto o sulla facciata dell’Hotel de Ville, i parigini non sono sguaiati, ma è questo che si vede, che si sente, che si tocca. Ovunque, in ogni manifestazione della socievolezza umana, in quella particolare espressione di orgoglio sociale che viene così bene ai parigini. Eppure, e ho attraversato la città in ogni suo girone fino all’estrema periferia sottoproletaria, non ho visto una sola bandiera della pace. Non ce n’è bisogno del resto, i francesi sono quietamente convinti che la sola bandiera nazionale testimoni già da sola esaurientemente al riguardo. Come dargli torto? Almeno in questa occasione, per questa guerra, per la caparbietà con cui questa nazione vi si è opposta. Così, in una settimana, non ho visto molti cortei, non quotidiani, non affollati come altrove nel mondo. Ma ogni giorno, in ogni ora del giorno, potevo scegliere tra una quantità impressionante di dibattiti, conferenze, seminari. Sola la Fnac, che è una rete commerciale e non una fondazione culturale, sta programmando un’iniziativa al giorno in ognuno dei suoi punti vendita. Al Salone del Libro ha aperto un caffè letterario dove si alternano conferenzieri che si occupano di un unico tema: l’Utopia. Piuttosto calzante, piuttosto lungimirante. Non comizi, o quasi mai; da quello che ho capito i francesi hanno colto l’occasione per mettersi a discutere delle molte cose correlate alla guerra e alla pace, correlati a se stessi, in particolare. Credo proprio per capire se stessi, innanzitutto. Hanno qualche problema al riguardo. Ho incontrato la signora Marguerite, la mia traduttrice, credo che sia un buon esempio sul come si senta oggi una parte significativa dei francesi. “Alle ultime elezioni – mi ha detto – ho votato trozkista. Come milioni di altri socialisti volevo far capire a Jospin che non ne potevo più. Così sono una dei responsabili del trionfo dei fascisti, prima, e dell’elezione di Chirac, dopo. E oggi sono qui che faccio il tifo per lui, per un uomo che avrà rubato e intrallazzato, ma che ha ridato un senso alla Repubblica. E sa quale è la cosa che più mi fa male? E’ la certezza che se ci fosse stato Jospin al suo posto non avrebbe avuto il coraggio di dire no a questa guerra”. Coma la capisco signora mia, come la capisco. Il senso presente e futuro della Repubblica, ecco in sostanza di cosa si stanno occupando oggi i cittadini della capitale mondiale della pace. E lo fanno riconoscendo a un uomo che per molti di loro è un avversario, il merito di avergliene offerto l’occasione. Nonostante se stesso, perché mi dice ancora Marguerite, Chirac forse ignora la buona fede, ma non i principi fondanti della Repubblica. Che sono quelli della democrazia; quelli che i padri della più grande democrazia del mondo, almeno per estensione territoriale e popolazione, sono venuti a imparare proprio qui a Parigi prima di mettersi a fare la loro rivoluzione. In albergo provo a confrontare maestri ed alunni ascoltando diligentemente in tivù i discorsi di Chirac e Bush; le ragionevoli constatazioni di un uomo di stato che parla alla sua nazione, i tetri anatemi di un predicatore che si rivolge al mondo come fosse la platea di gonzi della sua parrocchia texana. Ritorno dalla capitale mondiale della pace alla capitale mondiale del pacifismo. Sì, questo è il mio Paese secondo l’opinione del resto del mondo, francesi compresi, che guarda stupefatto alla straordinaria capacità di mobilitazione dei pacifisti italiani. Ed è vero, ed è di grande conforto accorgersi che siamo inaspettatamente primi tra i popoli della Terra non come produttori di mutande di lusso ma come fabbricanti di pensiero pacifico. Ritorno, tra un tripudio di bandiere della pace, in un paese i cui governanti desiderano ardentemente e innanzitutto che non ci si interroghi su niente, incapaci loro stessi di rispondere alle fondamentali domande circa la natura della Repubblica, i principi fondanti della democrazia. Ritorno in un Paese quotidianamente mobilitato per delle aspirazioni etiche e politiche che pare non abbiano alcun riscontro tra i suoi eletti, neanche li avesse votati nel corso di un delirio alcolico. Torno nella mia città, Città Civile, e la prima cosa dove mi casca l’occhio è un manifesto che invita a partecipare a una manifestazione pubblica dove sotto la bandiera arcobaleno della pace campeggia in nero il nome dell’onorevole Massimo D’Alema, il primo ministro della prima guerra combattuta da questa Repubblica. Mi vengono i brividi signora Marguerite, pensando al mio Jospin, pensando al mio Chirac, ospiti ingrati della capitale mondiale del pacifismo

Tratto da: Il Secolo XIX, 30 marzo 2003