Maurizio Maggiani: La storia che verrà
Oggi si è compiuto il destino dell’Iraq. Così sento dire in questo momento alla tv, la tv che avevo giurato di non accendere mai, mai più finché tutto non fosse finito. Ma ora è proprio tutto finito, tutto tranne Saddam, il dittatore, l’Hitler dei nostri giorni. Per lui, come per Bin Laden del resto, il giudizio divino è stato sospeso a data da destinarsi: finché sono liberi e vivi si potrà dare loro la caccia e nel mentre allargare a macchia d’olio il salvifico tocco della democrazia. L’ideale per la democrazia sarebbe addirittura che durassero in eterno. Fa un certo effetto venire a sapere dalla tv che le prime manifestazioni di giubilo del popolo iracheno, a Bassora come a Baghdad, piuttosto che risolversi in futili manifestazioni di massa si stiano organizzandosi in scelti momenti di esproprio proletario. La libertà va usata bene, svuotare i negozi e difenderli, l’una cosa e l’altra armi in pugno, è il primo esercizio scolastico di democrazia, quello alla voce “redistribuzione del reddito”. Il destino dell’Iraq si è dovunque compiuto. Non per mano divina è lecito pensare – il Papa dei cattolici ha avanzato notevoli riserve al riguardo – ma per mano dello stesso semidio che il destino con le generalità di Saddam Hussein glielo ha imposto trenta anni orsono. Un semidio che prende e dà, che atterra e che consola. E in questo fausto giorno mi occorre di pensare che si è compiuto un destino ben più vasto, forse il destino del mondo intero. No, non mi sto occupando delle malauguratamente note “masse arabe” già da stamane in fila per ricevere la loro dose di democrazia e libertà; con tutto il rispetto quella è roba di secondaria importanza se la osserviamo con il giusto sguardo delle proporzioni proprio quest’oggi ristabilite. Penso più in grande, penso al primo, vero, unico Mondo, al mio. Penso a me che vivo al centro di un paese al centro di un continente nel cuore stesso della democrazia e della libertà. Anch’io sono chiamato dal destino, tutti noi lo siamo. Dopo il lungo, esasperante momento delle domande e dei dubbi, oggi abbiamo la prova provata che il destino è uno solo per tutti noi. La sua forza è così grande, così inoppugnabili le sue ragioni, così evidente la sua ineluttabilità, che non è né possibile né ragionevole anche solo pensare di sfuggirgli. Il mondo ha un solo destino a disposizione, la storia è davvero finita, e la fortuna ha voluto che io e voi nascessimo nel posto giusto, nel luogo del Bene, soci, fratelli e sodali del costruttore di destini. Dall’altra parte del mirino, ignoti alla cartografia degli obiettivi sensibili, sistemati agevolmente tra le salmerie del destino, tra i ricostruttori, la sorte ci è stata benigna e lo sarà ancora di più: già da domani avremo la benzina meno cara. Ma oggi, inopinatamente, mi lascio prendere da un vacuo pensiero. Mi chiedo se d’ora in avanti sarò davvero felice, appagato, confortato. Mi chiedo, stupidamente, se si possa davvero vivere – una vita vera voglio dire, una vita proficua e interessante, una vita che ne valga la pena – dentro un destino univoco, immodificabile, indiscutibile. Se ci si possa davvero sentire liberi dentro il posto migliore dell’universo. Se per essere liberi non sia necessario avere almeno due destini. Uno qui davanti, a me, imposto dalle armi della ragione o dalla ragione delle armi, scegliete voi, uno dentro il mio cuore, imposto dalla mia coscienza, dal dono divino del libero arbitrio. No, non voglio essere libero di chiedere alla storia di farmi il dono di un dittatore, ma voglio che la storia, semplicemente, non finisca. Voglio poter decidere in merito a cosa è il bene, cosa è la libertà, la democrazia, voglio che tutto ciò appartenga alla storia che verrà, a come ho speranza che sia la storia che io voglio contribuire a costruire. Voglio essere anch’io un costruttore del mio destino, e per farlo non voglio essere obbligato ad attenermi al manuale di istruzioni che hanno appena distribuito. Voglio vivere in un mondo dove pensare questo sia un esercizio di uomini liberi e non di sovversivi. Voglio, se me la sento, confidare in Dio e non essere obbligato ad affidarmi a un semidio.
Tratto da: Il Secolo XIX, 10 marzo 2003