Maurizio Maggiani: Il mio privilegio

Oggi ho riflettuto sui miei privilegi. Mi è capitato di farlo perché mi sono svegliato all’alba. È l’ora in cui mi sveglio e mi alzo, l’alba. Sempre: molto presto d’estate, dunque, e non troppo d’inverno. Il mio primo, grande privilegio è di poter seguire il mio orologio biologico. Ma l’alba di questa mattina è stata molto particolare. Dalla grande finestra di cucina mi è apparso un mondo nuovo e irreale, come se il cielo e il mare fossero stati mutati in una materia diversa, spostati in un altro universo. O come se io, durante la notte, fossi stato trasportato in un altrove ignoto.
Guardavo alle sette questa mattina un mondo rosso cupo farsi lentamente del giallo spento dello zolfo e poi ancora rosso, di un rosso immaginario e astratto che non ricordo di aver mai visto nemmeno nella più grande scatola di pastelli. Un cielo compatto come materia solida, un mare glutinoso come se la materia del cielo si fosse impastata all’acqua per farne polenta. Sono stato a lungo a guardare, mentre il caffè bolliva e ribolliva e il latte si spandeva per i fornelli. E mi ha preso uno sgomento strano, uno stato d’animo raro: stupore e sgomento al cospetto del mondo intorno a casa mia, il mio mondo, il mio panorama, la mia città.
Un timore recondito per qualcosa che non sapevo nemmeno chiamare con un nome, una sottile vertigine come se stessi lentamente planando in un mistero extra terrestre. Eppure sapevo cos’era: una tempesta di sabbia africana che aveva incontrato chissà dove le correnti fredde del gelo del nord e si era ammassata sul cielo della città in un precario equilibrio che si sarebbe rotto in pochi attimi, appena uno dei due elementi avesse deciso di andare all’attacco dell’altro. Infatti è arrivato il vento a ridare al cielo e al mare e ogni altra cosa una qualche parvenza di realtà, e tutto fosse ridotto a una giornata di familiare maltempo.
Ma le sensazioni che ho provato permangono ancora adesso, e forte ancora sento il bisogno che ho provato all’alba di questa mattina: bisogno di riparo. La certezza che solo un metro al di là della finestra mi sarei perso in un mondo stravolto e alieno e la certezza che di qua la mia casa mi avrebbe protetto. Starmene al riparo e al caldo di qua dalle finestre della mia casa è quello che ho fatto per tutta la mattina, fino a un attimo fa, quando ho deciso di provare a raccontarvi tutto questo. Ed è stato un privilegio straordinario. Trasmutare il caldo dei termosifoni in tepore interiore, la solidità dei muri in stabilità interiore. Riparare la mia anima dalla tempesta, restituirle forza e tranquillità. Fossi stato costretto a stare per la strada questa mattina, lo fossi stato per una delle mille ragioni per cui centinaia di migliaia di persone non hanno potuto fare a meno di esserci, senza possibilità di riparo materiale e mentale, sarei ancora preda di quel cielo e di quel mare inumani, di quel rosso e di quel giallo folli.
Ma io ho il privilegio di vivere in una casa che mi accoglie tra pareti più solide della loro stessa materia, di starci per il tempo che voglio. E alimentarne la mia anima, curarla, sostenerla, crescerla. Per questo, quando uscirò di qui tra poco, potrò farlo curandomi soltanto di coprirmi per bene, sicuro della mia strada, sicuro del mio ritorno. Perché, anche oggi, il mio privilegio fa di me un uomo capace di liberarsi dalla paura, dall’angoscia, dallo sconcerto. Un uomo ricco che non ha bisogno di altre ricchezze. Per questo posso ancora vivere sentendomi libero, nonostante da molto tempo ormai, ogni mattino al mio risveglio, il cielo e il mondo sotto il cielo, mi appaiono di colori innaturali, spesso lividi, dipinti dalla voce delle notizie alla radio, dalla lettura dei giornali. Non godessi del privilegio di questo mio solido riparo, penso che sarei così angosciato da cercarmene uno purchessia: potrebbe persino bastarmi la prima telenovela in programma, o la prima bugia che mi viene in mente di dire a me stesso.
È per questo che capisco addirittura l’angosciata follia del mio primo ministro: nelle sue molte case quell’uomo, povero lui, non ha riparo, non ne ha la sua anima.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 22 febbraio 2004