Maurizio Maggiani: Il ceto medio. Noi più poveri e confusi

L’Eurispes ci ha detto che siamo poveri, depressi e confusi. Grazie tante. Ma chi siamo e come siamo e come ci sentiamo, quanto poveri e quanto confusi e quanto depressi, forse l’Eurispes non lo sa abbastanza. Perché per dire come le cose stanno dovremmo usare terminologie non comprese nelle eventualità dei loro questionari. La verità è che siamo incazzati, incazzati neri. Dico noi, e noi siamo il ceto medio, i privilegiati, i tranquilli e speranzosi, il nerbo progressivo del Paese. Gli ex di tutto questo. Naturalmente meglio non spingersi a dare un’occhiata al ceto basso: non aprite quella porta, per carità. Quelli sono carne bruciata, gente che non dovrebbe nemmeno comparire nelle statistiche, malignamente predisposta com’è a dare un’immagine distorta del paese. Gliene importa davvero a qualcuno del ceto basso? No, senza dubbio alcuno: fa talmente schifo il ceto da 800 euro al mese, che c’è da sporcarsi solo ad ammettere che ha qualche problema. Figuriamoci che senso può avere perdere del tempo a inventarsi il modo per risolverlo. Il fatto è che ora il ceto medio sta andando incontro a quello basso. All’appuntamento ci sta andando in picchiata. E l’elegante, charmant e beneducato ceto medio si sta scoprendo vicino di casa degli sporchi, brutti e cattivi del piano di sotto. E infatti il nostro stato d’animo non è molto diverso dal loro. All’Eurispes possono anche non poterlo scrivere, ma se vogliono sapere come ci sentiamo, ecco: siamo incazzati neri. Come quelli di sotto. E stiamo imparando a vederci sporchi e brutti come loro. Cominciamo ad andare in giro con un dente sì e uno no, perché i soldi per tutti – oplà!- all’improvviso non li abbiamo più. Per via della nostra scarsa sorveglianza sull’andamento della moneta unica, come dice il nostro ricco presidente. Già, avremmo dovuto prendere per il collo l’odontotecnico e costringerlo all’equa tariffa. Non ci dimenticheremo di farlo la prossima volta. Sempre più come quelli di sotto, stiamo diventando ignoranti; perché -ma guarda!- i soldi per l’altro dente li abbiamo sottratti al conto in libreria. Ma la povertà nostra è anche più nera del nero, vuoto portafogli, ed è quella che ci fa cattivi più che mai. È pestilente del senso di colpa di chi ha perso l’abitudine a pensare al bisogno come a un fatto della vita reale, vera e concreta, di chi si è abituato a vederlo col binocolo, incartato nelle brutte notizie qualunque, assieme al maltempo e la SARS. Basta chiuderci in casa finché non passa. Siamo incazzati neri anche con noi stessi, gli intelligentoni del Paese, che non avevamo capito bene, che ci siamo un attimino distratti. Che pensavamo di assomigliare così tanto al ceto alto da poter passare inosservati sotto la sua falciatrice. Naturalmente i ricchi sono più ricchi, visto che il denaro non è che ha la proprietà metafisica di svanire nel nulla, e non si ha notizie di incendi votivi di pecunia. La Fiat diminuisce la produzione delle sue macchinette, la BMW aumenta quella delle sue fuoristrada da 100.000 euretti. Non tutto va male nell’industria, non in quella del sollazzo d’alto bordo. Chissà se ci piacerà la compagnia di quelli di sotto, chissà se ci sapremo adattare. Speriamo di no, soprattutto per loro. Perché se quelli hanno una qualche possibilità di un miglioramento della loro infame condizione, possono sperare solo in noi. Loro sono ormai invisibili, noi ancora no. Loro se ne stanno a Begato e a Quezzi, noi in centro. Noi siamo il centro, o almeno lo eravamo fino a ieri. Il leggendario centro, in mancanza del quale non si vincono le elezioni. Questa storiella del centro mi suona tanto come circonvenzione di incapace, ma facciamoglielo pure credere agli incapaci. Che sappiamo che siamo incazzati neri e non abbiamo più nessuna intenzione di sopportare lo stato delle cose. Ci renderemo utili a noi stessi e, soprattutto, daremo una mano ai nostri nuovi vicini. Che meritano più di noi – un po’ di senso delle proporzioni, prego – e patiscono più di noi, noi con la pretesa del privilegio di “pensare”. Loro che continuano a pulire le strade, a infilare le lettere nelle cassette, a mungere le vacche, a tornire bulloni, con la certezza di non potersene mettere nemmeno la metà di denti, senza la speranza di potersi fare una risonanza al fegato in tempo per non lasciarci la pelle. Senza la forza contrattuale di poter prendere a schiaffi chi gli dice: fammi ancora un po’ più ricco, amico, che poi quello che mi avanza è tutto per te. Mentre noi, orgoglio del paese, abbiamo smesso da tempo di fare quello che dovevamo: almeno studiare, almeno inventare, almeno saper trovare qualche buona idea. Tanto buona da poterci governare un paese, farne felice un popolo.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 1 febbraio 2004