Maurizio Maggiani: Nel mio mondo
Ci sono momenti in cui mi chiedo se io vivo nel mondo dove pare che vivano tutti, o invece in uno tutto mio. Mi chiedo se le cose che penso e vivo nel mio abbiano senso nel mondo degli altri, se posso davvero comunicare con i miei simili, con la stragrande maggioranza di loro. Ci sono momenti in cui mi chiedo se io non sia un disadattato, o, peggio, un deviante.
Voglio raccontarvi cosa succede nel mo mondo, voglio chiedervi se mi sentite irreparabilmente estraneo.
Nel mio mondo la rabbia è una malattia spesso mortale, non un sentimento. Nel mio mondo l’indignazione, l’obiezione, il rifiuto sono sentimenti civili; il dolore, la pena, la commozione, sentimenti affettivi. La mattina del massacro di Nassirya non ho provato rabbia e non la provo neppure ora. Quella mattina ho provato per prima cosa pena e dolore; pena per quegli uomini, dolore per quelle morti. Un dolore e una pena infiniti. Nel mio mondo la pena e il dolore sono muti; nascono e crescono dentro lo stomaco e i polmoni, dilagano fino al viso. A volte si fanno lacrime, ma non sanno disciplinarsi in parole. La mattina del massacro di Nassirya sono sceso in strada; per vedere qualcuno, per non starmene solo. Ho incontrato la Grande Fila di piazza De Ferrari che si snodava silenziosa per pietire un ingresso al circo Panariello. Gente ignara, innocente. Sono stato un bel po’ a guardarla quella gente, disposta a molto per un ingresso di favore nella vacuità, cercando di vederla di lì a poche ore davanti al televisiore. L’ho vista stringersi intorno alle autorità, alla bandiera, all’Arma, lasciarsi andare alla rabbia, invocare pace, chiedere vendetta. Ho provato ancora pena e dolore. Solo verso la sera del massacro di Nassirya ho provato sentimenti civili.
Rifiuto. Nel mio mondo non c’è il Male, non prospera Satana, non alligna il Terrore; nel mio mondo ci sono gli uomini e le loro azioni. Contro la camera di commercio di Nassirya non si è scagliato Satana, ma degli uomini. Uomini che so avere un cervello, un cuore, sentimenti e idee; uomini che hanno una politica e anche una busta paga, obiettivi e strategie per raggiungerli. Uomini che chiamiamo terroristi, ma altrove sono chiamati combattenti, uomini che combattono una guerra con i mezzi che hanno a disposizione. Il mio mondo rifiuta quegli uomini e le loro azioni, comunque siano chiamati. Un rifiuto totale che ha voce e ragioni, ma non sentimenti. Non vorrei vederli appesi alla forca, vorrei che non potessero esistere. Ma esistono, e nel mio mondo sono generati dalla Storia non dall’Inferno.
Obiezione e indignazione. Bisogna cambiare la storia perché cessino di esistere le ragioni che li hanno generati. In questi due anni di guerre proclamate per cambiare la storia del mondo i terroristi si sono moltiplicati; ci sono stati degli sconfitti in queste guerre, ma non loro. Allora vuol dire la storia va cambiata in altro modo, con altre guerre, altri modi di combatterle, altri obiettivi. Si sono proclamate delle paci e le paci hanno generato altre guerre, più sanguinose di quelle appena concluse. Allora vuol dire che la pace non c’è. Non basta dichiararla, bisogna costruirla. Può un comando militare costruire una pace? C’è un popolo al mondo che possa subirla la pace senza aderirvi? Nel mio mondo si obbietta indignati a chi usa le parole svuotandole delle loro ragioni. Nel mio mondo si accettano solo le parole di verità. Chi conosce la verità di questa pace e di questa guerra? Nel mio mondo queste sono domande, non provocazioni.
Ho un giovane amico che vive al Cairo. Ha diciotto anni, è un cristiano armeno, e frequenta la scuola tecnica Salesiana. Mi scrive delle e-mail. Mi racconta del suo animo e di come sia dura per lui la vita al Cairo. Dura, mi ha scritto proprio la sera del massacro di Nassirya, che non puoi immaginare se non ci vivi. Non sai, ha aggiunto quella sera, come sia facile per un ragazzo qualunque, diventare terrorista. No, non lo so. Nel mo mondo non esiste questa eventualità. Quello che so è che non si possono portare tutti i ragazzi normali del Cairo nell’isola di Guantanamo. E che se anche questa fosse una soluzione, non c’è isola abbastanza grande al mondo per tutti i ragazzi normali che potranno un giorno diventare terroristi. Dio non è con noi per combattere contro di loro; se mai Dio ci chiede di combattere una guerra è da combattere per loro, per un paio di miliardi di ragazzi. È questa la guerra che si sta combattendo a Bassirya? Nel mio mondo gli uomini del mio paese uccisi a Nassirya sono morti facendo il loro dovere, ciascuno colmo del suo eroismo, ciascuno pensando al bene. Ma potevano essere chiamati a un’altra guerra che avrebbe chiesto loro un eroismo ancora più vasto e benigno. E di quell’eroismo potevano vivere molto di più e dare più vita.
Ma questa mattina un altro massacro. E ancora infinita pena, infinito dolore. E rifiuto, obiezione, indignazione che avranno voce appena mi si placa il peso dei sentimenti muti.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 16 novembre 2003