Maurizio Maggiani: L’Italia ha perso l’innocenza dell’era di Calimero
Un vecchio signore si è perso nei boschi dei Piani di Praglia. Sono sette giorni che lo vanno cercando, chissà se è ancora vivo, chissà se mai lo troveranno. Quel vecchio signore è qualcuno. Tutti sono qualcuno, naturalmente, ma lui è uno di quei qualcuno che restano nella memoria di molti perché ciò che hanno fatto è entrato nella vita di molti. Quel signore, dirigente industriale, ha venduto, molto bene, i prodotti della sua azienda facendoli entrare nella casa della gente attraverso la televisione, portati per mano da Calimero “il pulcino nero”. Questo è accaduto anticamente, nell’epoca di Carosello, tra gli anni ’50 e ’60.
C’è stato un tempo in questo Paese che un pulcino nero, pateticamente nero, con in testa ancora il uscio dell’uovo da cui era nato, ha potuto fare la fortuna di una grande azienda e diventare l’immagine di un modo di essere. Ancora oggi, restano qua e là tracce di Calimero tra chi si sente piccolo, nero, triste e solo.
Visto con gli occhi di oggi non era politicamente corretto Calimero. La sua afflizione era la negritudine, la sua consolazione era scoprirsi “solo” sporco, lavabile candeggiabile, finalmente bianco. Eppure da ragazzini portavamo portachiavi con Calimero. E le nostre sorelle avevano sul letto bambolotti di Calimero. Volevamo bene a quel pulcino, ma bene veramente, perché col Calimero potevi pure prenderci in giro il tuo compagno meridionale, ma prima o poi capitava a tutti di essere e sentirsi come lui. Negro o sporco che fosse.
Eravamo ignoranti e innocenti. E lo erano i nostri genitori. Bisogna essere davvero innocenti per farsi convincere da un pulcino nero a comprare i suoi detersivi ignoranti per non capire la malizia del messaggio. Sempre che in chi ha inventato Calimero ci fosse malizia. Ma credo proprio che questo Paese fosse fatto allora di un popolo ignorante e innocente. Un popolo ricco di buone intenzioni, colmo di innocenti aspettative. Un popolo che aveva potuto dimenticare come, solo pochi decenni prima, il suo esercito aveva gasato decine di migliaia di libici, d portato sterminato gli etiopi, ridotto i sopravvissuti alla fame e alla servitù. Ha potuto dimenticare avendo pagato il suo riscatto, perché riscattare lavare le colpe, e tornare a risplendere immacolati come Calimero, è una cosa fattibile con una certa facilità a chi non può non dirsi cristiano. Ha pagato perché a un certo punto questo popolo ha saputo levarsi contro il proprio l’altrui torto in quella che ancora oggi il presidente Ciampi chiama con cognizione di causa la Guerra di Liberazione. Pare che solo lui si renda ancora conto cos’abbia significato, agli occhi nostri del mondo, la Liberazione, da quante cose abbia liberato questo popolo.
Avendo mandato a scuola due generazioni oggi questo Paese non può ragionevolmente definirsi ignorante. Gli italiani la sanno tutti lunga ormai, conoscono ogni cosa. Ma non sono neppure più innocenti. L’abbiamo persa la nostra innocenza insieme alla nostra ignoranza. Calimero non ci frega più. Non ci frega più, se per questo, neppure quando si presenta moribondo per fame per sete al largo di Lampedusa. La guerra di Liberazione è diventata Guerra Civile, un orrore da incartare nei nuovi libri della nostra Storia. In Africa, per chi ancora ricorda che ci siamo stati, eravamo tutti brava gente, benefattori dell’umanità. Oggi per convincerci a comprare un detersivo vogliamo almeno due gnocche ignude, altro che pulcini. Ciò che vogliamo ricordare di essere stati ci sembra pateticamente insulso: eravamo troppo poco furbi, troppo creduloni. Siamo stati a un certo punto un popolo di verità semplici, forse un po’ troppo semplici, oggi pensiamo che tutto fila più liscio a non avere verità. O a costruircene di mobili, temporanee, autoreverse. Davanti alla responsabilità che ci provengono da ciò che abbiamo scelto di essere, prima neghiamo l’evidenza, poi facciamo istanza di rinvio, infine, se altro non è possibile, patteggiamo la pena. E ci candeggiamo con l’acqua sporca dello scarico. È vero, non possiamo non dirci cristiani, ma davanti alla croce, l’uomo crocefisso, al figlio di Dio martoriato, ci poniamo con lo stesso genere di reverenza con cui un americano si pone al cospetto di una insegna della Coca Cola. Chi tra i cristiani di questo Paese ricorda ciò che ha predicato l’apostolo Paolo: la croce è scandalo e follia? Chi tra chi non può non sentirsi cristiano può sopportare di vivere da cristiano? Scopriamo un’identità culturale seppelliamo una fede. Un’identità culturale te la danno gratis, una fede costa una enormità, pretende scandalo follia pretende innocenza. Spero ardentemente che ritrovino l’anziano signore di Calimero, che lo ritrovino vivo, e non si sia dissolto nei Piani di Praglia come la sua poca si è dissolta nel niente.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 2 novembre 2003