Maurizio Maggiani: Miracolo al Cairo

Se non vi dispiace amici lettori, ora vorrei parlarvi dei fatti miei.
So che non è corretto farlo, è una roba assolutamente controindicata dalla deontologia professionale; è probabile soprattutto, che a voi non importi nulla dei fatti miei. Legittima evenienza. Ma, vedete, sono un uomo abbastanza normale; un uomo che, al pari di alcuni altri miliardi di umani, vive una vita che non è sempre facile occupare con cose intelligenti da dire e grandi idee da proporre. Una vita che qualche volta non riesce a ordinare in nessun modo, non in un modo ragionevole, tanto meno in un modo abbastanza esemplare da trarne una ragione generale da riferire con orgoglio ai propri lettori. Spero che capiate cosa intendo dire.
Spero che abbiate voglia di continuare a leggere; a me farebbe piacere.
Vi voglio raccontare della mia settimana. E’ stata una settimana strana e difficile. La parola che mi è ronzata attorno è stata ossessivamente la parola miracolo. L’ho pronunciata e pensata un numero preoccupante di volte, l’ho ascoltata, questa strana e difficile parola, troppe volte. Non è un buon segno. I miracoli sono rari, rarissimi. I credenti sanno che non possono pretenderli, i laici che non li devono pretendere.
La mia settimana è cominciata con un miracolo mancato, domenica mi si è spezzato il cuore. All’improvviso come deve succedere quando un cuore si spezza per la solita, vecchia, banale ragione che lo fa spezzare a milioni di uomini e donne da parecchie migliaia di anni. Speravo in un miracolo regalato dalla vita, un modesto gratuito miracolo d’amore; non c’è stato. Ci ho sperato tanto, ci ho sperato come si spera nei miracoli: contro la ragione e contro l’evenienza. Non è accaduto. E’ stata una dura lezione, avrei preferito evitarmela, ma evidentemente era necessaria: la vita non regala miracoli, la vita apre e chiude porte, offre opportunità e le nega. La vita è più grande di qualsiasi intenzione; piegare la vita ai propri desideri è pura follia di inutile supponenza.
Lunedì sono partito per l’Egitto. Ho cercato di farlo: si è rotto l’aereo sulla pista a Genova. Forse un miracolo le farà prendere la coincidenza a Roma, mi ha detto mestamente fiduciosa la signora del banco Alitalia. Non c’è stato nessun miracolo, perché non sono i miracoli che fanno viaggiare la gente e Iddio non si occupa di compagnie aeree. Ci ho riprovato martedì, e ho fatto il mio viaggio; non per via di un miracolo, ma in virtù di un aereo decente. Giovedì sono tornato. Ci ho provato, almeno. Ritardi, posti venduti due o tre volte, liste di attesa come in un esodo da un Paese invaso. Un signore, occhi disperati, mi grida all’orecchio: solo un miracolo ci farà ornare a casa stasera. Ci ha fatto ornare a casa l’ultimo volo. Una porta si chiude, una porta si apre.
Al Cairo ho ricevuto una telefonata, a casa ho trovato una e-mail di identico contenuto, da due diversi amici. Mi dicono: hai visto che possono succedere i miracoli?Perché a seguito di un mio articolo una azienda del gas ha immediatamente rimborsato una signora indebitamente defraudata del dovuto. No, è ovvio, non so fare miracoli. La giustizia non è un miracolo. Un atto di giustizia non è la manifestazione del soprannaturale; è, spesso, qui come altrove nel mondo, l’esito di una lotta. Se lottassimo in milioni, avremo milioni di atti di giustizia, non di miracoli.
Ieri sera sono andato a mangiare una pizza in piazza Cavour. Davanti alla pizzeria, a lato della Casa del boia, è stato costruito un deposito di rifiuti urbani con dei decorativi condotti di scarico in acciaio. Sembra una installazione d’arte, se non fosse per gli effetti collaterali di qualche tonnellata di rifiuti sotto il naso. Il proprietario, civilmente sconsolato, mi ha chiesto: potrebbe fare lei qualcosa? Mi sono sentito rispondere: no, non io; solo un miracolo, signore, solo un miracolo può far togliere quello schifo. Come se il buonsenso fosse un miracolo, come se fosse un miracolo fare le cose che paiono più ragionevoli, o perché è una Pubblica Amministrazione a doverle fare.
Una settimana di miracoli mancati, di falsi miracoli, una settimana in cui è stata pronunciata invano una parola che andrebbe sussurrata solo in rari momenti della storia universale. Se la usiamo così spesso, e lo facciamo innocentemente, è perché abbiamo perso il senso delle proporzioni che dovrebbero regolare la nostra vita privata e sociale; per la disperante sensazione che ci pervade di non potercela cavare con le nostre umane risorse.
Eppure, forse, un miracolo questa settimana mi è accaduto davvero. Una cosa inaspettata, inimmaginabile, in qualche modo, sì, genuinamente miracolosa. Mercoledì sera, al Cairo, un gruppo di ragazzi che erano venuti ad ascoltare la mia conferenza mi ha invitato a passare la sera con loro. Ragazzi di un Istituto tecnico dove si insegna la lingua italiana. Ragazzi qualunque di una qualunque metropoli africana, una città molto dura che contiene venti milioni di vite molto dure. Erano ragazzi straordinariamente allegri, fiduciosi, curiosi, intelligenti; musulmani e cristiani, poveri e meno poveri. Molto adulti per i loro 18 anni, desiderosi di sapere e di vivere oltre ogni immaginazione occidentale. Siamo andati in un caffè a bere succo di melograno e fumare narghille; a parlare della vita, della sua durezza e della sua leggerezza. A scambiarci sogni ed esperienze, a conoscerci e fare amicizia. Mercoledì sera, in un caffè economico di un quartiere popolare del Cairo, guardavo quei ragazzi e vedevo un miracolo.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 26 ottobre 2003